Gli effetti competitivi dell’integrazione verticale nel mercato audiovisivo
Nell’ecosistema antitrust spesso si fa riferimento al potere di mercato come ad una nozione imprescindibile nella determinazione di potenziali condotte anti-concorrenziali. La valutazione del potere di mercato, d’altronde, risulta contestuale alla comprensione della struttura di una particolare industria, e di conseguenza il suo livello di concentrazione.
Capire, infatti, il numero di imprese presenti in un dato mercato e il relativo potere di mercato ci consente di trarre delle considerazioni in merito alla concentrazione di detto mercato, e di conseguenza del livello competitivo su di esso.
A tal proposito, dunque, è altresì noto il paradigma struttura-condotta-performance (SCP), secondo il quale il numero di soggetti presenti, il grado di differenziazione di prodotto, e la struttura di costi e di economie presenti (struttura), e il comportamento delle imprese in merito a scelte di prezzo, posizionamento del prodotto e scelta di integrarsi verticalmente (condotta), influenzeranno il livello di efficienza e di competitività di una data industria (performance).
Tra gli elementi strategici che caratterizzano la condotta delle imprese, particolarmente interessante per il settore audiovisivo risulta essere la scelta da parte degli operatori di integrarsi verticalmente, ovvero di non occuparsi unicamente della distribuzione a valle dei contenuti, come avviene attraverso le piattaforme streaming, ma anche dell’attività di produzione di tali contenuti a monte, ovvero l’attività tipicamente svolta dagli studios cinematografici.
È il caso, ad esempio, di Netflix, che in questi ultimi anni, ha investito notevoli risorse per internalizzare la produzione dei suoi contenuti.
Nel 2020, infatti, la società californiana ha speso in contenuti originali oltre 17 miliardi di dollari, dai 6,9 miliardi del 2016, una cifra superiore a quella dei principali studi di Hollywood messi insieme, destinata dal gruppo californiano prevalentemente alla produzioni internazionali, ma in misura crescente anche a quelle locali. [1]
Al pari di Netflix, seppure con un discreto ritardo, infatti, anche Amazon sta ampliando i suoi investimenti in contenuti auto-prodotti, tanto che, nel corso del 2021, ha iniziato il percorso di acquisizione di una dei più importanti studios di produzione cinematografica, ovvero Metro-Goldwyn-Mayer (MGM) per 8,45 miliardi di dollari, rafforzando la propria efficienza nella produzione di contenuti originali.
O, ancora, la strategia della piattaforma Disney +, nata proprio dalla scelta di integrarsi verticalmente dello studios cinematografico Disney.
Tuttavia risulta rilevante cercare di comprendere le motivazioni per cui, da un lato si sostenga con forza che tali processi di acquisizione siano anti-competitivi, e rischino di portare nel lungo periodo ad una concentrazione di mercato eccessiva, dall’altro, invece, come tali processi di acquisizione risultino in linea con il boom crescente del mercato streaming, portando innovazione ed efficienza in un settore estremamente dinamico.
Una delle prevalenti motivazioni portate a sostegno della tesi per cui queste fusioni verticali potrebbero condurre ad effetti anti-competitivi, è la possibilità di c.d. foreclosure.
Acquisendo gli asset di una società di produzione cinematografica, e dunque operante nel mercato a monte, la società di distribuzione a valle potrebbe negare ai concorrenti l’accesso alle risorse, in questo caso le licenze per distribuire i propri prodotti cinematografici, o aumentarne il prezzo, o diminuendone la qualità. [2]
Allo stesso modo, poi, tale effetto di foreclosure potrebbe verificarsi anche nei confronti dei consumatori finali che vedrebbero alzare il prezzo del servizio offerto dai concorrenti, o semplicemente non poter avere accesso a determinati contenuti se non sottoscrivendo l’abbonamento alla piattaforma integrata verticalmente.
Tuttavia, nonostante sia possibile, in caso di posizione di dominanza, un effetto anti-competitivo, le fusioni verticali portano sicuramente ad un beneficio per i consumatori. Esse, infatti, eliminano l’effetto della c.d. doppia marginalizzazione, offrendo dunque al consumatore finale un prezzo vantaggioso. [3]
È dunque importante sottolineare che l’integrazione verticale non risulta per se anti-competitiva.
Tale strategia competitiva, tuttavia, pone in essere una potenziale problematica nella distribuzione equa dei contenuti originali e non.
Attraverso il sistema di c.d. recommendation, attraverso cui Netflix consiglia all’utente, tramite algoritmi data-driven, contenuti che risultino in linea con le preferenze del consumatore stesso, si potrebbe assistere al fenomeno, già evidenziato nell’e-commerce, del c.d. self-preferencing.
Tale pratica consiste, infatti, nel dare priorità ai propri contenuti rispetto a quelli acquisiti esternamente, al fine di ottenere una maggiore diffusione degli stessi, al fine di incrementare i ricavi marginali per tali contenuti originali. [4]
(A cura di Luigi Adriano Tonizzo)
RIFERIMENTI
[1] E. Corvi, Streaming Revolution: dal successo delle serie alla competizione a tutto campo per conquistare il pubblico, Dario Flaccovio Editore, 2020, cit., p. 20
[2] Hovenkamp H. (2020), Antitrust And Platform Monopoly, The Yale Law Journal, vol. 130, n. 8, pp. 1952-2273.
[3] A. Stohr, V. Noskova, P. Kunz-Kaltenhauser, S. Gaenssle, O. Budzinski, Happily ever after? – Vertical and horizontal mergers in the U.S. media industry, in Ilmenau Economics Discussion Papers, Vol. 25, n. 126, 2019, cit., p. 15.
[4] O. Budzinski, S. Gaenssle, N. Lindstadt-Dreusicke, Data (R)Evolution – The economics of algorithmic search and recommender services, in Ilmenau Economics Papers, vol. 27, n. 148, 2021, p. 3.
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