La ricaduta sull’economia nazionale degli effetti nefasti di un processo di durata irragionevole
La macchina della giustizia italiana si sa non gode di ottima salute, e l’idea di una riforma dell’intero sistema giudiziario è sempre dietro l’angolo. La durata dei processi va ben oltre la ragionevole durata così come previsto dall’art. 111 Cost. e le ripercussioni sul piano economico sono davvero considerevoli. Ma la colpa è degli attuali codici procedurali o è figlia di una pianta organica ormai insufficiente ad affrontare l’intera mole dei procedimenti giudiziari?
Ogni volta che un nuovo governo si insedia, tra le questioni più roventi ritrova sicuramente la “questione giustizia”. È risaputo che siamo uno dei paesi peggiori a livello europeo per la durata dei processi. Infatti solo la Grecia ha tempi superiori ai nostri e l’ultimo rapporto redatto dalla Commissione Europea sull’efficienza giudiziaria ha mostrato numeri pesanti (1).
Con riferimento al processo civile la stima media relativa alla durata è di circa 8 anni. Quindi rapporti commerciali, risarcimenti del danno, e qualsiasi altra contesa civile resta in un certo senso sospesa per otto interminabili anni.
Una situazione leggermente migliore si ha nel processo amministrativo, con un computo totale di circa 5 anni e mezzo. In questo caso però i gradi di giudizio, rispetto al processo civile ordinario, sono soltanto due, ovvero il TAR e il Consiglio di Stato.
Il processo penale risulta essere il più “rapido” con una media di quasi quattro anni (siamo comunque i peggiori a livello europeo anche qui), anche se ai fini di una valutazione sulle ripercussioni economiche dovute alle lungaggini processuali è facile immaginare come tale tipologia processuale sia la meno influente.
Già all’inizio del nuovo millennio lo Stato ha provato a porre un rimedio per i processi di durata irragionevole durata introducendo la c.d. legge Pinto, ovvero di una specifica normativa che prevede il pagamento di un indennizzo in favore di quei cittadini che hanno affrontato processi (civili) di durata irragionevole. La previsione di legge è quella di un indennizzo che varia da € 400 ad € 800 per ogni anno di ritardo rispetto ai termini standard previsti dalla stessa legge. Per il primo grado è previsto un tetto temporale di tre anni, per l’appello due anni e, infine, per la Cassazione un anno.
Per ossequiare il dettato costituzionale dell’art. 111 l’indennizzo è un passaggio dovuto, ma se invece, si vuol pensare all’effetto prodotto sulla media della durata dei processi, questa legge è da considerarsi totalmente fallimentare in quanto non si sono registrati significativi cambi di durata ed in più lo Stato è gravato da una ulteriore spesa. Nel bilancio del governo la voce di spesa relativa agli indennizzi dovuti a titolo di ristoro per la durata irragionevole dei processi, ha raggiunto numeri davvero importanti (centinaia di milioni di euro).
In tutto ciò, il cittadino, anche se ha ottenuto il ristoro, non può dirsi comunque soddisfatto di un sistema giudiziario così lento e, avrebbe comunque preferito un processo più celere rispetto ad un ristoro quasi irrisorio. Si pensi a quelle cause intorno alle quali gravitano interessi milionari (ma anche di qualche centinaia di migliaia di euro), e si parametri il tutto a qualche centinaio di euro l’anno riconosciuto dallo Stato per il ritardo.
Ma cosa ci perde, ad esempio, un’azienda a causa di un processo troppo lungo?
Una risposta univoca a questa domanda non può esserci poiché la valutazione andrebbe fatta caso per caso. Quello che è indicabile è la forzata mancanza di opportunità; un congelamento di interessi economici dai quali potrebbero derivare nuovi investimenti, nuovi posti di lavoro, nuovo gettito fiscale per lo Stato che, moltiplicato per i contenziosi in essere, raggiugerebbe numeri da brividi se si pensa che nel 2019 i giudizi pendenti nella sola area civile hanno raggiunto il mezzo milione circa (2).
Ad ogni modo per la questione dell’irragionevole durata del processo il dito viene spesso puntato contro l’attuale codice di procedura civile ma, in realtà, se applicato alla lettera il processo assumerebbe comunque una durata ragionevole.
A un avvocato sarebbe facile prospettare l’esempio del classico rinvio ex art. 183 comma 6° c.p.c., che prevede un termine totale di 80 giorni per una ulteriore produzione di memorie volte a precisare l’atto introduttivo del giudizio o a produrre prove contrarie. A livello teorico quindi, dopo la prima udienza, la seconda potrebbe essere fissata già dopo circa 3 mesi ma, nella pratica, si arriva a rinvii che possono arrivare a due anni.
Il motivo non è certo l’assenza di voglia da parte del giudice di turno nel rispettare le previsioni del codice procedurale ma, più che altro, il problema è l’eccessivo carico di lavoro che pende sulle loro spalle.
A questo punto ci si chiede: perché con tutti i soldi spesi per gli indennizzi connessi alla c.d. legge Pinto non si amplia l’organico dei giudizi e dei relativi uffici in modo da rendere la giustizia più rapida e, per l’effetto, una economia nazionale più prospera? In questo modo vi sarebbe anche una inevitabile riduzione degli indennizzi dovuti. Insomma, togliere dalla voce “risarcimento del danno” e inserire nella voce “assunzioni”. Infatti non sarebbe nemmeno da sottovalutare che in questo modo si creerebbero anche nuovi posti di lavoro (e i laureati in giurisprudenza non mancano).
Purtroppo siamo lontani da una soluzione, perché ad oggi si discute ancora sull’opportunità o meno di riformare il processo civile ma, anche ad introdurre una legge che prevede termini ancora inferiori rispetto a quelli attualmente previsti, se poi ci sarà un organico insufficiente a sostenere il carico di lavoro generato dai contenziosi tali termini finiranno per non essere rispettati.
(A cura di Tommaso Gioia)
RIFERIMENTI
(1) Rapporto europeo qualità della giustizia https://rm.coe.int/rapport-avec-couv-18-09-2018-en/16808def9c
(2) Dati Ministero della Giustizia https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST1287132&previsiousPage=mg_2_9_13
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