La storia infinita degli studi di settore
(di Pietro Pavone)
Non c’è pace per gli studi di settore.
Da sempre lo strumento di accertamento più tormentato tra quelli a disposizione del Fisco e più volte al centro di una vera e propria rivolta sociale che ne ha esaltato il mito più che coglierne la realtà, gli studi di settore tornano a far parlare di sé.
Sull’onda della generale strategia dell’Amministrazione Finanziaria di concentrare gli sforzi sulla “grande evasione”, soprattutto mediante verifiche “mirate”, è notizia degli ultimi giorni quella della volontà di fare degli studi settore “un mezzo più di selezione dei soggetti da controllare che la leva per controlli diretti”[1].
Un cambio di veste, dunque, che si colloca in un progetto di più ampio respiro e che probabilmente si è reso necessario anche dato il sostanziale fallimento degli studi come in origine concepiti. Il particolare strumento accertativo è stato infatti oggetto di innumerevoli interventi giurisprudenziali nonché di circolari emanate dall’Amministrazione Finanziaria, volti a rendere il risultato statistico sempre più rispondente alla realtà economica esaminata: chiarimenti, delucidazioni e correzioni “in corso” mai davvero efficaci che hanno fatto degli studi di settore una sorta di “potenzialità inespressa” all’italiana.
In realtà, la lista degli accertamenti presuntivi sperimentati nel nostro paese negli ultimi trent’anni è ampia (Visentini-ter, coefficienti di congruità, coefficienti presuntivi, minimum tax, parametri economici, studi di settore, concordato preventivo di massa, pianificazione fiscale concordata): si tratta di una particolare filosofia fiscale che – nel caso degli studi di settore – si basa sul c.d. reddito “normale”, concetto distante anni luce da quel reddito “effettivo” che per anni la legislazione fiscale del nostro paese ha cercato di catturare.
La vexata quaestio della “normalità” del reddito è stata la causa principale dell’instabilità normativa degli studi: in sostanza, si è cercato di creare un “modello virtuale di contribuente” da raffrontare anno per anno con il contribuente “reale”; una vera e propria “invenzione tributaria” da adeguare al singolo caso concreto, per renderla veramente efficace.
Non pare azzardato sostenere che sia stata proprio la traduzione pratica della citata necessità di adeguamento al singolo caso concreto il vero “tallone d’Achille” degli studi di settore: in altri termini, ogni qualvolta si rilevi uno scostamento del reddito prodotto dal contribuente con quello ritenuto “normale” tale per cui il contribuente venga etichettato come “non congruo”, lo spettro del contenzioso tributario si fa particolarmente ampio.
Infatti, è ormai pacifico che la “non congruità” da sola non basta ma occorre che sia debitamente supportata con ulteriori prove riferite specificatamente all’attività attenzionata, non essendo sufficienti elementi solo genericamente riferibili al contribuente (quali gli standards sviluppati da GeRiCo).
In altre parole, l’astrattezza dell’elaborazione derivante dagli strumenti “standardizzati” (quali sono appunto gli studi di settore) necessita di essere verificata e il ponte tra gli uffici dell’Amministrazione Finanziaria e il contribuente è rappresentato dal contraddittorio[2] con quest’ultimo.Il contraddittorio, previsto espressamente dall’art. 10, comma 3-bis, L. 8.5.1998, n. 146, rappresenta quindi lo strumento con cui adeguare alla concreta realtà economica del singolo contribuente, il risultato stimato dallo studio di settore.
Privo dell’elemento essenziale del contraddittorio con il contribuente, lo studio di settore è uno strumento di accertamento monco ed impotente con il rischio che il reddito “normale” resti tale sempre e solamente per il Fisco.
Dato questo scenario, in alcuni casi si è assistito al libero sfogo della fantasia dei contribuenti in tema di cause giustificative da poter esperire in contraddittorio per “eludere” GeRiCo, cioè per dimostrare la non adattabilità dello studio alle specifiche condizioni di esercizio e alle caratteristiche della propria attività. Assai frequenti sono soprattutto i casi di situazioni contingenti “soggettive” attribuibili tanto al soggetto dell’imprenditore o del professionista, quanto alla struttura imprenditoriale o professionale.
Giova, altresì, sottolineare che il contraddittorio non è sufficiente che sia semplicemente garantito ma la motivazione dell’atto di accertamento deve essere integrata con le ragioni sollevate dall’Ufficio, in sede di contraddittorio, in risposta alle eventuali contestazioni ed osservazioni sollevate dal contribuente, giacché “è illegittimo l’accertamento basato sul mero scostamento dei dati dichiarati dal contribuente, rispetto a quelli relativi alla media del settore, senza che l’Amministrazione Finanziaria dia spiegazioni del mancato accoglimento delle giustificazioni portate dal contribuente in sede di contradditorio”. Questo è quanto sostenuto dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 9712 del 6 maggio 2014.
Come detto, la storia degli studi di settori è una storia travagliata: dapprima la Corte di Cassazione ha riconosciuto che “gli scostamenti devono essere integrati da altri elementi e da una robusta dose di contraddittorio fra uffici e contribuenti”, successivamente alcuni correttivi hanno tenuto conto dell’impatto della crisi sui ricavi. La conseguente perdita di efficacia dello strumento accertativo è stata inevitabile.
Oggi, gli studi di settore si “reinventano” e la rinnovata finalità degli stessi si collega al piano antievasione del Governo dove si parla esplicitamente della necessità di elaborare “con prevedibili effetti già per l’annualità di imposta 2014, nuovi indicatori di coerenza economica e di normalità economica”.
La nuova dimensione degli studi di settore ben si inserisce nel solco di studi rappresentato dal progetto di ricerca sul tema della “Criminologia e Criminalistica Tributaria”, cui si è più volte fatto cenno nei precedenti Numeri della presente Rubrica di ECONOMIAeDIRITTO.
Non è un caso che un limite agli studi di settore (come concepiti fino ad oggi) sia stato da molti riscontrato nella loro innata tendenza a colpire quasi esclusivamente l’evasione marginale degli operatori di più piccole dimensioni[3]. La mutata filosofia sottesa allo strumento accertativo in parola potrebbe essere l’occasione per codificare i comportamenti evasivi delle grandi imprese, nella convinzione di fare della migliore selezione dei contribuenti più a rischio il vero vantaggio competitivo della moderna lotta ai fenomeni – anche internazionali – di base erosion.
Anche il clima politico sembra essere quello giusto: “la delega fiscale è una grande occasione per tutti. Lo è proprio perché tutti sanno quanto complesso e deteriorato sia il sistema fiscale italiano.
L’occasione, però, non va solo riconosciuta e apprezzata. Va sfruttata in tutti i modi per ricostruire una realtà di minore conflittualità e di maggiore collaborazione tra Fisco e contribuente (…)”[4].
Gli opachi intrecci internazionali dei grandi gruppi societari che creano, spostano e “puliscono” capitali di matrice criminale possono essere fermati – rinunciando finalmente a rincorrerli – sviluppando ab origine una cultura dell’analisi del rischio.
In tema di risk management si sottolinea che informazioni relative ad incongruenze legate agli studi di settore vengono di norma già utilizzate dai singoli Reparti territoriali della Guardia di Finanza quali fonti di innesco nella programmazione annuale dell’attività di verifica e controllo, nell’ambito dell’ordinaria attività di contrasto all’evasione parziale, benché, in tali casi, venga di norma istruita un’azione ispettiva, anche di carattere indiretto-presuntivo, fondata su altre metodologie, corrispondenti a quelle generalmente adottate nei riguardi di tutte le imprese di minori dimensioni e dei lavoratori autonomi.
Una sorta di anticipazione, in piccolo, del nuovo modo di concepire gli studi di settore.
Note
[1] Così Il Sole24Ore n. 218 del 10 agosto 2014.
[2] Per la Suprema Corte gli studi di settore, pur costituendo uno strumento più raffinato dei parametri, in quanto la loro elaborazione prevede peraltro una diretta collaborazione delle categorie interessate, rimangono comunque il frutto di elaborazioni statistiche, di natura probabilistica che, per quanto seriamente approssimate, sono inquadrabili nell’ambito delle “presunzioni semplici”. Più in dettaglio, i Supremi Giudici hanno affermato il seguente principio: “La procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (…)”.
[3] L’art. 10, co. 4, L. 146/1998 stabilisce che sono esclusi dall’applicazione degli studi di settore i soggetti che dichiarano ricavi/compensi superiori a 5.164.569 euro.
[4] Il Sole24Ore n. 218 del 10 agosto 2014.