Economia

Un problema chiamato produttività

La produttività, in economia, è definita come il rapporto tra output (produzione aggregata) e fattori di produzione impiegati nel processo produttivo ( input ).
La produttività, dunque, è un indicatore di efficienza e redditività, in quanto testimonia la capacità, da parte di un sistema economico, di produrre beni e servizi con minori costi sociali ed economici.
Utilizzando il linguaggio matematico possiamo definire la produttività nel modo seguente:
produttività = output/input.
La produttività, a livello economico, è un indicatore fondamentale per stabilire la salute, finanziaria e macroeconomica, di un paese, riflettendo la sua competitività rispetto agli altri partner commerciali.
L’Italia, purtroppo, soffre di grandi problemi di produttività da circa 30 anni, ovvero dai primi anni ’90 quando, non senza difficoltà, intraprese il percorso di integrazione, e convergenza finanziaria, per entrare nell’Unione economica e monetaria.
L’Italia, durante gli anni ’70 e ’80, sperimentò una grande crescita economica trainata, principalmente, dalle esportazioni di beni e servizi all’estero, rese possibili dalla svalutazione della lira (celebre fu la svalutazione nel 1992, in cui la lira perse il 30% del suo valore) che, nei mercati internazionali, rende i nostri prodotti più economici agli occhi dei consumatori esteri.
Un’economia, quindi, può crescere, e prosperare, perseguendo due strategie distinte:
1. Deprezzamento della valuta incentivando così le esportazioni di beni e servizi;
2. Innovando, sia a livello di prodotto che di processo, e riacquisendo competitività nei mercati.
La valutazione, infatti, permette ai beni prodotti da un’economia di essere competitivi nei mercati internazionali grazie, essenzialmente, alla riduzione del potere d’acquisto della valuta, il che facilita e stimola l’acquisto da parte di partner esteri.
La svalutazione, però, nonostante nel breve periodo possa incrementare il Pil di un paese, nel medio-lungo periodo comporterà, a causa del minor valore nominale della valuta, un incremento nel tasso d’inflazione, dal momento che i beni esteri importati costeranno in modo significativo di più.
Qualora, però, un paese, per limiti e vincoli di carattere economico e finanziario, non potesse ricorrere alla svalutazione, per incrementare il Pil e la sua ricchezza, dovrebbe necessariamente, per mantenere e tutelare la sua competitività, innovare ed incrementare la sua produttività totale .

Come possiamo, intuitivamente, osservare dal seguente grafico, la produttività oraria del lavoro, ovvero la variazione marginale nella produzione totale in seguito ad una variazione unitaria di lavoro, in Italia è stagnante, se non addirittura in declino, dagli anni 2000.
Il grafico riporta , lungo l’asse delle ascisse, l’anno di riferimento e lungo l’asse delle ordinate il valore, medio, della produttività del lavoro.
E’ interessante, poi, notare come il grafico riporta i valori della produttività del lavoro a partire dall’anno 2000, contestualmente all’ingresso, da parte delle principali economie europee, nell’unione monetaria a valuta unica (euro).
Osserviamo come le principali economie, tra cui Francia e Germania, abbiamo sperimentato livelli crescenti nella produttività oraria del lavoro, a discapito del bel paese.
La crescita economica italiana, tra gli anni ’70 e ’80, non era legata ad un andamento altrettanto positivo dell’economia reale, ma era il frutto della svalutazione finanziaria che aveva reso i nostri prodotti, all’estero, più economici e che vennero così domandati, stimolando le esportazioni e la crescita del reddito nazionale.
Con l’ingresso nell’Unione economica e monetaria, la svalutazione competitiva, non essendo più i singoli paesi titolari della politica monetaria, non era possibile e ciò evidenziava i grandi problemi strutturali di produttività, ed efficienza, che affliggevano il nostro paese.
Ancorati ad una valuta comune, come l’euro, un paese può riacquistare produttività e competitività incrementando la qualità dei suoi prodotti, ed innovando l’intero processo produttivo, ovvero producendo gli stessi risultati ( output ) a parità di fattori di produzione ( input ) , evitando così inefficienze e distorsioni nell’allocazione delle risorse.
Nel 2020, secondo un’indagine dell’Istat, in Italia vi erano ben 4.253.279 imprese, di cui il 95% era caratterizzato da micro imprese con meno di 10 dipendenti, e il restante 5% era costituito da 201.000 PMI.
Le micro imprese, secondo l’Istat, generano ben il 29% del prodotto interno lordo del paese.

Dal grafico, inoltre, se si evince come per le imprese, aventi più di 250 dipendenti, ed anche per quelle comprese tra i 50-249, la produttività del lavoro italiano sia superiore alla media europea.
Per le micro imprese, invece, ovvero imprese principalmente a conduzione familiare, costituite circa da 1-9 dipendenti, la produttività delle imprese italiane e spagnole è di gran lunga inferiore rispetto alla produttività media delle analoghe imprese europee.
Gli economisti concordano su come molte piccole e micro imprese italiane siano altamente inefficienti e poco produttive e, in qualsiasi sistema concorrenziale, dovrebbero lasciare il posto ad imprese più grandi che possano assorbire l’occupazione ed allocare, grazie all’implementazione di tecnologie più efficienti, in modo più produttivo, dinamico ed innovativo le risorse economiche.
Il processo di crescita e sviluppo economico, infatti, si fonda sulla logica economica del “ darwinismo di mercato ”, ovvero di come piccole e micro imprese inefficienti devono, progressivamente, essere sostituite e rimpiazzate da imprese medio-grandi efficienti, produttive e disposte ad investire , godendo dei vantaggi, e benefici, delle economie di scala.
Piccole e micro imprese inefficienti, per poter sopravvivere, sono molto spesso portate ad evadere ed eludere l’imposizione fiscale.
L’Istat, inoltre, dal 2014 al 2022 suggerisce come aggiunto il rapporto tra valore e ore lavorate sia aumentato, in Italia, solo dello 0.5% contro l’1.3% nella media dell’Unione europea.
Affinché l’Italia possa sviluppare la sua produttività è, dunque, necessario:
– Avviare un processo di digitalizzazione del paese, investendo in tecnologie efficienti;
– Investire nella qualità dell’istruzione (capitale umano) e nella formazione dei lavoratori;
– Riformare la giustizia;
– Snellire la burocrazia.
Riuscirà il paese ad intraprendere, dopo circa 30 anni di stagnazione e declino economico, un programma di riforme strutturali che gli permettano di consolidare, e rafforzare, la crescita e il progresso economico?

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