Diritto

Identità e libertà: quando la coscienza collettiva produce la realtà sociale

Il tema della libertà è, da sempre, un argomento particolarmente affascinante e interessante, oggetto di studio di filosofi e politologi.
Ma, effettivamente, cos’è la libertà?
Una prima, possibile e papabile, definizione potrebbe riguardare “il pieno agire umano senza alcun vincolo che limiti e influenzi il suo comportamento sociale”.
Proviamo, brevemente, a ragionare con un semplice esempio.
Immaginiamo una comunità composta da 100 individui che, per vivere, si ritrovano a condividere una data area territoriale. Gli uomini, in questo dato ambiente, definito dalla teoria politica come stato di natura, sarebbero liberi di tutto su tutti, in quanto non vi sono norme legislative di comportamento a normare e regolare il loro vivere sociale.
In un ambiente simile, ovvero in una condizione in cui ogni uomo avrebbe il pieno dominio sugli altri, il diritto alla vita sarebbe realmente compromesso, se non addirittura inficiato.
Thomas Hobbes, filosofo inglese vissuto nel Cinquecento, sottolineò nel suo capolavoro Il Leviatano come l’uomo, tendenzialmente, sia profondamente egoista e, all’interno dello stato di natura, diventerebbe lupo degli altri uomini. Essere liberi, in una realtà sociale definita dallo stato di natura, vuol dire favorire e permettere la prevaricazione di ogni uomo sugli altri, in quanto ognuno si sentirebbe spinto a massimizzare il proprio benessere individuale, anche danneggiando il benessere sociale e la vita altrui. Vi sarebbero tensioni, guerre per il possesso di risorse economiche essenziali alla vita e l’uomo, in questo ambiente, vivrebbe in un clima di costante lotta per la sopravvivenza.
La libertà assoluta ha perciò una componente ed accezione fortemente negativa, dal momento che sarebbe portatrice di odio, violenza e morte. Il diritto di uccidere, ad esempio, nello stato di natura, è assolutamente legittimo e perseguibile, così come il diritto a rubare e a farsi giustizia da sé. L’essere umano, timoroso della morte, ha sostanzialmente compreso come, la libertà dello stato di natura, fosse altamente pericolosa e dannosa, andando a minare e compromettere la convivenza.
I 100 uomini, soggetti del nostro precedente esperimento, decidono perciò di dar vita ad una comunità politica, creando così uno Stato, ovvero un corpo politico, con regole e leggi di comportamento affinché sia garantito il diritto alla vita.
Aristotele ribadì come gli uomini, decidendo di vivere in una comunità, devono rinunciare i a tutte le libertà individuali, al fine di perseguire il bene della comunità. In una comunità politica, perciò, la libertà assoluta non esiste, dal momento che il nostro vivere sociale e politico è regolato da norme e regole giuridiche.
Assodato perciò che la libertà assoluta non esista rimane, adesso, da definire entro quali confini erigere il nostro vivere collettivo.
Tendenzialmente la vita di una comunità è data dall’insieme di regole e leggi che, la stessa, crea e si impegna a rispettare, poiché ritiene che esse siano le migliori per raggiungere determinati obiettivi.
Attenzione, non si sta parlando di regole e norme di comportamento giuste ed errate, in quanto la bontà di una norma è un fattore puramente soggettivo e non ha alcun valore assoluto ed intrinseco.

Nei nostri sistemi economici abbiamo assunto, da un punto di vista esclusivamente morale e coscienziale, che la morte sia il male da evitare e contrastare, così che ogni comportamento e gesta volti ad offendere, uccidere e denigrare un individuo, o gruppo di essi, debba essere sanzionato e punito giuridicamente. Per poter ergere una comunità, ovvero un tentativo di regolare una convivenza associata di gruppi di individui, è bene domandarsi, prima di tutto, quale sia l’obiettivo, sociale ed economico, che il corpo politico vuole perseguire e, una volta individuato, eventuali comportamenti, leggi, norme e sanzioni ne faranno da corredo.
Proviamo con un esempio molto intuitivo: se la comunità di 100 individui decidesse, in modo del tutto irrazionale, che l’obiettivo da perseguire fosse lo sterminio della comunità e la morte degli individui, allora creerebbe un sistema politico e sociale in cui le norme e le leggi andrebbero a proteggere il fine politico da perseguire.
Hitler, nella Germania nazista del III Reich, creò un corpo sociale e politico in cui l’obiettivo, da dover raggiungere politicamente, fosse l’annientamento del popolo ebraico e il trionfo mondiale della Germania, uscita sconfitta e altamente indebolita dalla I guerra mondiale. Tutto questo rispecchia un comportamento errato? La risposta, purtroppo, è altamente soggettiva.
Heinrich Himmler, pianificatore e organizzatore dei campi di sterminio nazisti, avrebbe risposto a questa domanda positivamente, poiché il suo pensiero era frutto della corrente politica dominante nella Germania del Reich.
Il bene e il male, dunque, in termini assoluti non esistono in quanto, la loro definizione e strutturazione, è traslata in funzione dell’obiettivo finale da voler perseguire. Nelle trucide ed assassine politiche Hitleriane, il bene era considerato lo sterminio e il genocidio della razza ebraica e il male, utilizzando un linguaggio metaforico a titolo prettamente esemplificativo, sarebbe stato individuato da tutti quei comportamenti che si sarebbero opposti a ciò.
Tali comportamenti, ad esempio, si notano in vari regimi dittatoriali come nella Germania nazista di Hitler o nella Russia Staliniana in cui, i dissidenti ed oppositori politici, erano in molti casi imprigionati ed uccisi, poiché contrari all’ideologia politica dominante.
In filosofia politica un aspetto chiave è rivestito dalla morale, ovvero quell’insieme di valori e principi ideali in base ai quali, gli individui e la collettività, distinguono il bene dal male.
E’ importante sottolineare come una comunità politica, utilizzando il linguaggio di Sigmund Freud, altro non sia che la somma delle morali individuali. E’ la somma delle coscienze individuali che produce, in aggregato, la struttura politica dominante di una comunità. Se, ad esempio, io penso che uccidere sia moralmente errato mi comporterò, nella vita pubblica, in modo tale da non tradire il mio credo di valori e la mia morale.
Questo però non suggerisce che il mio sia un comportamento giusto; è semplicemente un agire personale dettato da una morale ed una coscienza individuale che, per determinate motivazioni, portano il soggetto in questione a preferire quel dato comportamento rispetto ad un altro. Qualora, però, pensassi che fosse moralmente giusto rubare ed uccidere, attuerò un determinato comportamento, coerente con il mio bagaglio valoriale. Che cosa, perciò, determina la correttezza e la disonestà del nostro agire sociale?
Ciò che è fondamentale, come ribadito poc’anzi, è l’aggregazione delle morali, ovvero delle coscienze umane, in una data comunità politica. Qualora trionfasse una determinata morale, essa detterà il nuovo corso politico e le norme, divieti, leggi, si adegueranno per rafforzarla. Questa dinamica sociale la si nota benissimo in presenza delle elezioni in cui, a distanza di pochi anni, si assiste spesso a cambiamenti radicali nella politica di una comunità: nuove morali, nuove leggi, regole, divieti, norme etc…
La politica, perciò, è in costante divenire e mutamento, poiché riflette la continua evoluzione della morale degli uomini che, come ribadito, è soggetta a repentini cambiamenti e non è statica per definizione.

Per concludere vorrei perciò sottolineare come, dal mio punto di vista, non risulti corretto parlare di libertà quanto, piuttosto, di riduzione di comportamenti e possibilità sociali, ed il compito di una buona politica democratica è quello di rendere minima tale distorsione e privazione.
Ogni uomo, inoltre, ha una propria identità, che abbiamo assunto ed identificato precedentemente con l’espressione della morale e della coscienza, dunque, nel suo agire sociale, è inevitabilmente legato e soggiogato al rispetto di essa, altrimenti se così non fosse starebbe depersonalizzando la sua singolarità. La nostra identità, ovvero il flusso emotivo che guida il nostro agire sociale, ci porta a non essere liberi di fatto, poiché intrappolati all’interno della nostra psiche e coscienza.
Come ribadito da Robin Williams, nei panni del Professor John Keating ne L’attimo fuggente Solo nei sogni gli uomini sono davvero liberi, è da sempre così e così sarà per sempre”.

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