L’elusione fiscale nell’imposta di registro
di Paolo Antonio Iacopino
1. Premessa
Un argomento molto discusso è la possibilità di applicare all’imposta di registro la disposizione antielusiva. La questione è ultimamente tornata all’attenzione dei commentatori a seguito di una recentissima sentenza della Suprema Corte di Cassazione (n.15319 del 19/06/2013) e di una non meno recente risoluzione dell’Agenzia delle Entrate (n. 20 del 28/03/2013). Il nodo fondamentale che deve essere sciolto è il rapporto tra l’art. 20 del DPR 131/1986 (Testo Unico Imposta di Registro, da adesso TUR) e la disciplina antielusiva generale di cui all’art. 37-bis DPR 600/73. Prima di entrare nel merito della questione si rende tuttavia necessaria un’analisi attenta del citato art. 20 del TUR.
2. L’art. 20 del TUR
La norma in intestazione, che è rubricata “interpretazione degli atti”, recita testualmente “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.
Questa disposizione ha un ruolo fondamentale nella struttura dell’imposta di registro, in quanto attribuisce all’Amministrazione Finanziaria il potere di tassare gli atti in relazione alla loro “intrinseca natura” e agli “effetti giuridici”, prescindendo dalla forma apparente e dalla qualificazione attribuita allo stesso atto dalle parti.
L’intrinseca natura rappresenta la ricostruzione giuridica dell’atto seguente al suo esame, mentre gli effetti giuridici sono le modifiche prodotte dall’atto nei diritti delle parti.
In base a questa norma l’Amministrazione Finanziaria è legittimata a tassare le disposizioni contrattuali in ragione del loro reale contenuto, anche se lo stesso non era previsto o voluto dalle stesse parti.
Il concetto è ancora più chiaro richiamando il caso affrontato dall’Amministrazione Finanziaria con la risoluzione n. 49 del 13/03/2007. Nello specifico un’associazione di categoria ha interrogato l’Agenzia delle Entrate in merito al trattamento fiscale da riservare ad un contratto di franchising che prevedeva, tra le altre disposizioni, il godimento di un immobile. Secondo il contribuente al contratto di franchising non potevano essere estese le norme di salvaguardia previste per l’affitto d’azienda, in quanto l’art. 35, commi da 10 a 10-sexies, del D.L. 223/2006 non lo prevede espressamente. Infatti, l’art. 35 sopra citato dispone per le locazioni di fabbricati strumentali, ancorché assoggettate ad imposta sul valore aggiunto, l’obbligo di registrazione del relativo contratto e l’applicazione dell’imposta di registro nella misura proporzionale dell’uno per cento. Inoltre, il comma 10-quater dello stesso articolo statuisce, in determinate ipotesi, che il nuovo regime di tassazione applicabile alle locazioni di fabbricati strumentali si estenda anche all’affitto di azienda, senza alcun richiamo al contratto di franchising, allo scopo di evitare manovre elusive.
La soluzione prospettata dal contribuente non è stata condivisa dall’Amministrazione Finanziaria, secondo la quale “l’affiliazione commerciale è un contratto bilaterale, sinallagmatico, avente ad oggetto la concessione dall’affiliante all’affiliato di diritti di proprietà industriale e/o intellettuale e l’inserimento dell’affiliato nel sistema distributivo dell’affiliante. La causa del contratto è, pertanto, la commercializzazione di beni e servizi che hanno il marchio dell’affiliante, da parte dell’affiliato (o franchisee) che si presenta al pubblico come se fosse una diramazione di una medesima impresa. Precisati gli elementi essenziali che qualificano il contratto di franchising, si rileva che la concessione del diritto di godimento di un immobile non rientra tra le prestazioni riconducibili nello schema tipico del contratto di franchising; ai fini dell’imposta di registro tale pattuizione deve invero essere inquadrata nell’ambito di una più complessa operazione negoziale in cui al contratto di franchising è collegato un ulteriore negozio giuridico caratterizzato da un distinto nesso causale, come ad es. un contratto di locazione di immobile commerciale”.
Dall’esempio emerge chiaramente che la funzione della disposizione è quella di determinare il regime della tassazione, dopo aver indagato e qualificato le disposizioni e gli effetti giuridici dell’atto.
Nel tempo l’ambito di operatività della norma si è ampliato. Infatti, l’evoluzione interpretativa ha portato ad estendere l’applicazione dell’art. 20 a tutti quei casi in cui i contraenti pongono in essere più atti che realizzano, mediante effetti giuridici parziali, un unico effetto traslativo, costitutivo o dichiarativo. Si pensi al caso della vendita frazionata dei beni di un ramo aziendale. Le singole cessioni viste autonomamente non configurano la fattispecie della cessione d’azienda, che invece si realizza analizzando l’effetto giuridico finale di tutti gli atti parziali posti in essere. Sul punto la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 2713 del 25/03/2002 ha stabilito che “ in tema di imposta di registro, la prevalenza che l’art. 20 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 attribuisce, ai fini dell’interpretazione degli atti registrati, alla natura intrinseca ed agli effetti giuridici degli stessi sul loro titolo e sulla loro forma apparente, vincola l’interprete a privilegiare il dato giuridico reale rispetto ai dati formalmente enunciati – anche frazionatamente – in uno o più atti, e perciò il risultato di un comportamento sostanzialmente unitario rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali. Ne consegue che una pluralità di negozi, strutturalmente e funzionalmente collegati al fine di produrre un unico effetto giuridico finale, vanno considerati, ai fini dell’imposta di registro, come un fenomeno unitario, anche in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva”.
Anche nel caso dell’interpretazione unitaria di più atti l’Amministrazione Finanziaria non disconosce il contenuto delle disposizioni ma si limita a qualificare gli effetti degli atti posti in essere dalle Parti.
Per cui l’art. 20 TUR è chiaramente una disposizione anti-evasiva e non anti-elusiva. La differenza tra evasione ed elusione è sostanziale. L’evasione consiste nella violazione diretta delle norme tributarie. Pensiamo al caso di un contribuente che sottoscrive un contratto che prevede il trasferimento di un bene mobile ed il pagamento di una penale, ed al momento della registrazione assolve il tributo per la sola disposizione relativa alla cessione del bene mobile. L’elusione si rappresenta tramite comportamenti che sono, almeno formalmente, rispettosi delle leggi, ma che hanno l’effetto di aggirare obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario, finalizzati all’ottenimento di un indebito risparmio d’imposta.
L’art. 20 TUR rientra a pieno tra le norme che contrastano l’evasione. Infatti mediante l’applicazione dell’istituto la P.A. può rettificare la liquidazione del tributo fatta dalle parti se non è coerente con gli effetti giuridici prodotti dall’atto. Se la norma fosse una disposizione anti-elusiva la P.A. non entrerebbe nel merito dell’atto ma ne disconoscerebbe gli effetti. In tal senso la Corte di Cassazione nella sentenza n. 6835 del 2013 ha precisato che “ l’art. 20 D.P.R. 131/1986 è norma che, quand’anche ispirata pure a finalità genericamente antielusive, non configura “disposizione antielusiva” (del resto la sua formulazione, mutuata peraltro da normativa previgente, è storicamente ben precedente al diffondersi del dibattito sull’elusione), giacché, in combinazione con il precedente art. 1, interviene a delineare positivamente l’ambito oggettivo del rapporto giuridico tributario di riferimento, con specifica opzione per i contenuti sostanziali degli atti registrati rispetto ai relativi profili meramente cartolari (v. Cass. 10273/07, 2713/02), e non pone -come, invece, fa (in relazione a situazioni specifiche) l’art. 37 bis D.P.R. 600/1973 – una generale clausola antielusiva “di chiusura”, tesa a rendere comunque inopponibili all’Amministrazione finanziaria atti, fatti e negozi, che risultassero privi di valide ragioni economiche e diretti solo ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario. Pertanto, nella prospettiva di cui all’art. 20 D.P.R. 131/1986, si procede alla ricostruzione dell’obiettiva portata, sul piano degli effetti giuridici, dell’attività negoziale posta in essere; ai fini dell’applicazione dell’art. 37 bis D.P.R. 600/1973, si procede, invece, al riscontro della ricorrenza di circostanze (in particolare: assenza di valide ragioni economiche per la relativa adozione, aggiramento di obblighi o divieti fiscali) sintomaticamente denunzianti lo sviamento dì forme negoziali dalla propria specifica funzione ed il loro uso distorto al solo fine del conseguimento d’indebito vantaggio fiscale”.
2.1 L’art. 20 TUR e il trasferimento d’azienda
Le discussioni più accese sull’applicazione dell’art. 20 TUR sono nate quando l’Amministrazione Finanziaria ha qualificato unitariamente come cessione di azienda un atto di conferimento seguito dalla cessione delle azioni ricevute in cambio dei beni conferiti. La diversa qualificazione determina per il contribuente effetti impositivi differenti. Infatti, ai fini dell’imposta d’atto il conferimento e la cessione di partecipazione sono atti societari soggetti, ex art. 4 parte I della Tariffa allegata al TUR, all’imposta fissa, mentre la cessione d’azienda sconta l’imposta proporzionale di registro.
Il conferimento d’azienda è un atto attraverso il quale il conferente conferisce ad una società, detta conferitaria, un complesso di beni, ricevendo in cambio azioni della stessa conferitaria. Mediante questa operazione il conferente non si spoglia dei diritti sui beni conferiti, ma continua ad esercitarli tramite la partecipazione societaria. Nel momento in cui il conferente cede al conferitario le azioni ricevute, soprattutto se i due atti (conferimento e cessione) sono temporalmente conseguenti, si spoglia definitivamente di ogni diritto sui beni in cambio del denaro ricevuto dalla cessione delle partecipazioni. Per cui all’esito dei due atti avremo che il conferente (cedente) si spoglia definitivamente dei beni in cambio di denaro. I beni entrano definitivamente nel patrimonio del conferitario (acquirente) in cambio del pagamento del prezzo delle azioni. Con l’acquisto delle azioni da parte dell’acquirente (conferitario) vengono ripristinati gli originari assetti partecipativi. Per cui indagando gli effetti di questi due atti è possibile inquadrare unitariamente le due operazioni come una cessione di azienda. Seguendo questa linea l’Amministrazione Finanziaria ha emesso numerosi atti di liquidazione dell’imposta di registro, rettificando il regime impositivo applicato dal contribuente. Numerosi sono stati pure i contenziosi. Ad oggi la posizione dominante della giurisprudenza, soprattutto di legittimità, concorda, pur in presenza di decisioni in senso contrario, con l’impostazione seguita dall’Amministrazione Finanziaria.
Molti commentatori hanno criticato questa linea sostenendo che il conferimento e la cessione di partecipazione sono due atti produttivi di effetti autonomi, che non possono essere valutati unitariamente. In linea di principio questo è vero. Ciò non toglie che l‘Amministrazione Finanziaria, secondo le linee guida dell’art. 20 TUR, può dimostrare, motivandolo adeguatamente, che i due atti producono un unico effetto giuridico.
Altro argomento utilizzato contro la posizione dell’A.F. è il richiamo dell’art. 176, comma 3, del DPR 917/1986 (TUIR) secondo il quale “non rileva ai fini dell’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, il conferimento dell’azienda secondo i regimi di continuita’ dei valori fiscali riconosciuti o di imposizione sostitutiva di cui al presente articolo e la successiva cessione della partecipazione ricevuta per usufruire dell’esenzione di cui all’articolo 87”.
Questa tesi non è condivisibile per due ragioni: l’art. 176, comma 3, TUIR non è applicabile all’imposta d’atto nemmeno a seguito dell’introduzione nel TUR dell’art. 53-bis (vedi infra), ed inoltre la ragione che ha indotto il legislatore ad introdurre l’art. 176, comma 3, nella disciplina del reddito d’impresa non è valida per l’imposta di registro. Infatti, con il conferimento e la successiva cessione delle partecipazioni il conferente si spoglia definitivamente dei diritti sui beni, che vengono trasferiti ad un altro soggetto d’impresa (il conferitario). La permanenza dei beni nel regime d’impresa non elimina ma semplicemente differisce la tassazione, ai fini delle imposte dirette, delle plusvalenze sugli stessi beni. Infatti, nel momento in cui il conferitario cederà i beni, trasferirà la sede all’estero o liquiderà la società le relative plusvalenze saranno soggette all’imposta sul reddito d’impresa. Nel caso di specie il legislatore accetta una politica di tax deferreal senza rinunciare al suo potere impositivo. Invece, l’imposta di registro incide su tutti i trasferimenti di ricchezza. Per cui se un passaggio non viene assoggetto al tributo il salto d’imposta è definitivo.
Le considerazioni fatte fino ad ora sono difficilmente applicabili nel caso in cui le azioni ricevute dal conferente in cambio dei beni conferiti vengano cedute ad un soggetto diverso dal conferitario. In questo caso avremo che il conferente (cedente) riceve il denaro per la cessione delle azioni ricevute a seguito del conferimento non più dal conferitario ma da un terzo. Indagando gli effetti giuridici dei due atti avremo che chi riceve i beni, il conferitario, non paga il prezzo, mentre chi paga il prezzo, cioè l’acquirente delle azioni, non riceve i beni. Per cui per poter sostenere di essere di fronte ad un atto di cessione d’azienda una delle due disposizioni deve essere disconosciuta. Infatti, se individuassimo il conferitario quale acquirente dell’azienda dovremmo disconoscere gli effetti dell’atto di acquisto delle partecipazioni. Invece, se ritenessimo acquirente dell’azienda colui che ha acquistato le partecipazioni dovremmo disconoscere gli effetti del conferimento. In tutti e due i casi non è possibile invocare l’art. 20 TUR, perché non prevede l’inopponibilità nei confronti della P.A. degli atti portati alla registrazione.
3. L’applicazione dell’istituto dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto all’imposta di registro
Le discussioni sulla possibilità di applicare all’imposta di registro gli istituti dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto sono conseguenti all’introduzione nel TUR dell’art. 53-bis, e all’orientamento giurisprudenziale di legittimità che ha esteso l’abuso del diritto ai tributi non armonizzati. Andiamo con ordine. Con il D.L. 223/2006, meglio conosciuto come decreto Bersani, è stato introdotto nel TUR l’art. 53-bis, secondo il quale “ Le attribuzioni e i poteri di cui agli articoli 31 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, possono essere esercitati anche ai fini dell’imposta di registro …”. Occorre indagare se il riferimento fatto dal legislatore ai poteri ed alle attribuzioni di cui agli artt. 31 e ss. del TU accertamento è un richiamo ai soli artt. 31 (attribuzioni agli Uffici delle Imposte) e 32 (poteri degli Uffici) o a tutti i poteri e le attribuzioni del titolo IV del DPR 600/73. La soluzione più logica fa ritenere che il legislatore abbia voluto estendere all’imposta di registro tutti i poteri e le attribuzioni previsti dal titolo IV del DPR 600/73, tra cui rientra l’art. 37-bis. Infatti, se avesse voluto applicare all’imposta d’atto i soli poteri degli artt. 31 e 32 non avrebbe utilizzato la locuzione “31 e seguenti”, ma “31 e 32”. L’Amministrazione Finanziaria non ha ancora affrontato e risolto questo nodo interpretativo, che invece è stato esaminato dal Consiglio Nazionale del Notariato nello studio 68/2007/T. In questo ultimo documento si specifica testualmente che “L’art. 37 bis è da considerare come norma ampliativa delle prerogative unilaterali di autotutela degli uffici, nella misura in cui consente a questi ultimi di disattendere una realtà negoziale della quale non si contesta né la veridicità, né la simulazione, senza oltretutto la mediazione di un intervento giurisdizionale. Sembra dunque adeguato qualificarla come norma attributiva di un potere speciale, che neutralizza per il fisco gli effetti di atti o comportamenti o negozi elusivi, legittimando una tassazione “al netto” degli atti, comportamenti e negozi sospetti. Considerata da tale punto di vista, la problematica di cui al quesito sembra imporre una risposta positiva, ammettendo il ricorso all’art. 37 bis anche in materia di imposte di registro e ipocatastali. In senso contrario, occorre però rilevare che la qualificazione prevalente dell’art. 37 bis, pur suscitando molte perplessità e riserve, assegna alla disposizione il valore e gli effetti di una norma sostanziale, che va applicata già dal contribuente, vietandogli l’utilizzo fiscale di atti e comportamenti elusivi (con la conseguenza di una possibile applicazione delle sanzioni amministrative, o addirittura penali). In tale logica, la collocazione sistematica della disposizione recede, nella gamma dei criteri interpretativi: sia pure collocata nel seno dei poteri degli uffici, la disposizione sarebbe in realtà integrativa del sistema sostanziale delle imposte sui redditi, del TUIR, stabilendo precisi obblighi (o meglio, divieti) a carico del contribuente. Tale ricostruzione, discutibilissima ma nettamente prevalente, impedisce di coinvolgere la disposizione stessa nel processo di ampliamento dei poteri in sede di accertamento nelle imposte indirette, perché essa non avrebbe – soltanto – la funzione di regolare un potere, o un’attribuzione, dell’ufficio; e per poter transitare nel sistema delle imposte indirette avrebbe avuto bisogno di una norma che la inserisse nel contesto delle regole sostanziali (ad esempio quelle sull’”applicazione” dell’imposta). Ed alla stessa conclusione, in definitiva, si potrebbe pervenire osservando che la clausola interpretativa di cui all’art. 20 t.u. imposta di registro, nella misura in cui privilegia l’oggettività dell’intrinseca natura degli atti sottoposti a registrazione, al di là del titolo o della forma apparente, è incompatibile con la clausola antelusiva, con la quale potrebbe avere almeno in parte funzione comune”.
Nettamente contraria all’applicazione dell’art. 37-bis all’imposta di registro è la sentenza della Cassazione n. 15319 del 19 giugno 2013, secondo la quale “.. in senso contrario, appare inutilmente richiamata dalle società contribuenti la previsione dell’art. 53 bis D.P.R. 131/1986. Tale norma, infatti, estende al campo delle imposte di registro, ipotecaria e catastale le “attribuzioni” ed i “poteri” riconosciuti agli Uffici dal d.p.r. 600/1973 (e, segnatamente, dai relativi artt. 31, 32 e 33) ai fini dell’ accertamento delle imposte dirette e non contempla, dunque, alcun richiamo alla disposizione di cui all’ art. 37 bis d.p.r. 600/1973, che è norma che non riguarda suddette “attribuzioni” e “poteri”, ma incide sull’oggetto dell’ imposizione. D’altro canto, l’esame della previsione dell’art. 53 bis D.P.R. 131/1986 non lascia trasparire altro che la volontà del legislatore di estendere, all’ambito delle imposte d’atto, i poteri e le attribuzioni riconosciuti all’Amministrazione al fine dell’accertamento delle imposte dirette”.
L’altro aspetto da affrontare è la possibilità di estendere all’imposta d’atto l’istituto dell’abuso del diritto. La questione è sorta in seguito alla posizione espressa dalla Corte di Cassazione con le sentenze n. 21221 del 29/06/2006 e n. 22023 del 13/08/2006, che richiamando un orientamento della Corte di Giustizia ha ritenuto applicabile l’istituto dell’abuso del diritto ai tributi non armonizzati.
La prassi affronta indirettamente la questione nella risoluzione n. 20 del 28/03/2013, nella quale si afferma che“Per quanto concerne il richiamo al principio dell’abuso del diritto, si rappresenta che lo stesso, secondo costante giurisprudenza, si sostanzia nel divieto di “trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale” (Cassazione, sezioni unite, nn 30055, 30056 e 30057 del 2008). L’abuso del diritto sembra, pertanto, essere stato individuato dalla giurisprudenza nell’utilizzo distorto di strumenti giuridici senza alcuna valida ragione economica diversa dal risparmio d’imposta cui la stessa operazione posta in essere è finalizzata. In linea generale, dunque, il luogo di sottoscrizione del contratto, di per sé considerato ed in assenza di ulteriori elementi, non sembra rientrare nella definizione di abuso del diritto finora elaborata dalla giurisprudenza, per la configurazione della quale appare necessario un quid pluris idoneo a realizzare“l’utilizzo distorto di strumenti giuridici” finalizzato all’ottenimento di un risparmio fiscale”. Quando l’A. F. sostiene che il luogo di conclusione del contratto non rientra nella definizione di abuso del diritto sta ad indicare, anche se indirettamente, che la definizione elaborata dalla giurisprudenza dell’abuso del diritto è applicabile all’imposta di registro. Questa interpretazione è coerente con l’orientamento della suprema Corte di cassazione. P cui è possibile sostenere che vale anche per l’imposta di registro il principio secondo il quale l’applicazione della disciplina nazionale non può estendersi fino a farvi rientrare i comportamenti abusivi degli operatori economici, posti in essere al solo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dall’ordinamento giuridico.
4. Conclusioni
Sulla base di quanto è stato detto è possibile sostenere che la disposizione contenuta nell’art. 20 TUR e quella dell’art. 37-bis DPR 600/73 hanno diversa natura, perché contrastano fenomeni differenti. Il primo l’evasione ed il secondo l’elusione fiscale. La stessa differenza la troviamo tra lo stesso art. 20 TUR e la figura dell’abuso del diritto.
L’altro aspetto che è stato affrontato è la possibilità di applicare all’imposta d’atto l’art. 37-bis DPR 600/73 e la figura dell’abuso del diritto. In questo caso la conclusione è positiva.
Come specificato in narrativa il richiamo fatto dall’art. 53-bis TUR alle disposizioni di cui agli art. 31 e ss. DPR 600/73 fa ritenere che è applicabile all’imposta di registro la disposizione antielusiva contenuta nell’art. 37-bis DPR 600/73. Inoltre, richiamando le argomentazioni sopra esposte si deve giungere alla stessa conclusione relativamente all’abuso del diritto.
L’elusione fiscale rende inopponibili all’Amministrazione Finanziaria gli atti ed i fatti privi di valide ragioni economiche che permettono un indebito risparmio d’imposta. Questi principi vanno ricondotti nella struttura dell’imposta di registro. Per cui l’Amministrazione Finanziaria per poter liquidare la maggiore imposta secondo i dettami della disposizione antielusiva dovrà disconoscere gli effetti giuridici di uno o più atti portati per la registrazione ed individuare un atto od un contratto verbale, registrato o da registrare in termine fisso, sul quale applicare il tributo.
È comunque auspicabile un intervento chiarificatore da parte dell’Amministrazione Finanziaria sulle questioni sollevate in questo intervento.