Profili penalistici e criminologici del mobbing
(di Alberto Biancardo)
Il mobbing si concretizza in un insieme di comportamenti attuati in modo ripetitivo e protratti nel tempo che, per il loro carattere persecutorio e vessatorio, tendono ad emarginare un soggetto dall’ambiente di lavoro, causandogli un danno psico-fisico lesivo della personalità, che si mostra prevalentemente con alterazioni dell’umore e diminuzione dell’autostima. Non essendo analiticamente determinati, i comportamenti includono tutte le forme di sopraffazione. Per la Cassazione, non sono invece considerate mobbing le conflittualità interpersonali entro determinati limiti di tolleranza, le difficoltà relazionali del soggetto, e le strategie organizzative e gestionali legate alla normale attività d’impresa come trasferimenti e licenziamenti economici.
Il termine mobbing, coniato dall’austriaco Konrad Lorenz intorno agli anni settanta, deriva dal verbo inglese ‘to mob’ ossia assalire, accerchiare, in riferimento all’accanimento contro un animale e alla sua esclusione dal branco. Il primo a considerare il mobbing una persecuzione psicologica relativa all’ambiente di lavoro, è stato alla fine degli anni ottanta lo psicologo Heinz Leymann, che lo definiva come una serie di azioni ripetute e protratte, ostili e sistematiche, da parte di uno o più individui contro un singolo privo di difesa (1).
Il mobbing è un fenomeno recente che nasce e si sviluppa negli Stati Uniti. Solo dopo gli anni novanta acquisisce rilievo anche in Italia, senza essere tuttavia mai elevato al rango di fattispecie giuridica autonoma. Non vi è, infatti, una definizione giuridica di mobbing ed una specifica tutela da parte dell’ordinamento.
Tipologie di mobbing
Una prima distinzione si ha, in considerazione degli autori dei comportamenti (‘mobber’), fra mobbing verticale e mobbing orizzontale. Il mobbing verticale può essere discendente o ascendente. Quello discendente (bossing (2)) si ha qualora gli atteggiamenti persecutori provengano dal datore di lavoro o un superiore gerarchico, con azioni dirette o indirette che hanno l’obiettivo di escludere il lavoratore e indurlo a licenziarsi. Questa diffusa tipologia, si concretizza in atti di violenza psichica, in particolare con l’assegnazione di incarichi poco gratificanti e continue umiliazioni che demotivano il dipendente, e che causano un senso di inadeguatezza ed emarginazione.
Una sottocategoria di bossing, potrebbe essere definita ‘mobbing da strategia aziendale’: lo stress psico-fisico provocato al lavoratore ha in questo caso il solo fine di indurlo a lasciare l’impiego per ridurre il personale. Rari sono invece i casi di mobbing ascendente o ‘dal basso’ (low mobbing), che si concretizza in azioni che mirano a screditare o mettere in discussione l’autorità di superiori gerarchici da parte dei lavoratori. Si ha invece il mobbing orizzontale quando i comportamenti persecutori sono messi in atto da uno o più colleghi nei confronti di un altro di pari grado, volti di solito ad emarginarlo e screditarne credibilità e reputazione. Sempre più spesso si ha il mobbing combinato, fusione di mobbing orizzontale e verticale.
Qualora la vittima carichi la famiglia di tutte le frustrazioni accumulate sul lavoro a seguito del mobbing subìto, si ha il doppio mobbing (3), particolarmente diffuso in quelle aree ove alla famiglia è attribuito un ruolo primario. Dopo una fase iniziale di comprensione da parte dei familiari si ha un distacco che isola ulteriormente la vittima.
Si ha mobbing trasversale quando persone fuori dall’ambito lavorativo, in accordo col mobber creano ulteriore emarginazione nei confronti della vittima.
Differente alle precedenti tipologie è il mobbing sessuale, che si concretizza con molestie, generalmente nei confronti di persone di sesso femminile, da parte di uomini in posizione gerarchica superiore nell’organigramma aziendale. Il molestatore non ha, infatti, l’intento di allontanare la vittima ma di tormentarla ossessivamente. Le vessazioni si concretizzano in un vero e proprio ricatto a scopo di molestia sessuale, e i rifiuti hanno spesso l’effetto di atti ritorsivi contro la vittima.
Il mobbing non riguarda esclusivamente il mondo del lavoro, ma anche altri contesti: in casi diversi dall’ambiente lavorativo è definito mobbing sociale. Un soggetto può diventare infatti vittima di mobbing in altri contesti, come l’ambiente di studio (mobbing scolastico). In quest’ultima ipotesi, però, bisogna considerare la giovane età dei soggetti coinvolti e il sovrapporsi con il fenomeno del bullismo.
Si può, infine, proporre una ulteriore distinzione, in funzione delle prospettive di durata del mobbing, fra: permanente, ove le vessazioni nei confronti di un soggetto cessano solo quando siano interrotte dall’autorità giudiziaria ovvero quando i mobber ottengano le dimissioni del mobbizzato, e transitorio, nei casi in cui dopo un periodo di vessazioni i mobber perdano l’interesse nei confronti di una determinata vittima per accanirsi su un altro lavoratore. Ciò accade, ad esempio, nei confronti dei neoassunti. In questi casi potrebbero essere frequenti ipotesi in cui la ‘vittima’ diventa ‘carnefice’, poiché da mobbizzato, al momento di una successiva assunzione potrebbe divenire mobber.
Rilevanza giuridica
Perché il mobbing assuma rilevanza sul piano giuridico, i comportamenti vessatori devono protrarsi nel tempo in maniera ripetuta e abituale. Esso si verifica, difatti, ove vi sia una pluralità di atti prolungati, aventi un minimum standard di nocività.
In assenza di una definizione giuridica di mobbing, la tutela del lavoratore si desume da Costituzione, Codice civile e penale. La salvaguardia costituzionale contro il mobbing si può far risalire all’art. 2 Cost. che tutela la dignità umana, all’art. 32 che riconosce la tutela della salute e all’art. 41 che vieta attività economiche che arrecano danno alla sicurezza, libertà e dignità umana. Nel Codice civile la difesa del lavoratore vessato trova fondamento nell’art. 2087 che tutela l’integrità fisica e personalità morale del lavoratore, imponendo al datore di adottare tutte le misure idonee a tal fine. Lo Statuto dei lavoratori all’art. 15 predispone una protezione contro i comportamenti discriminatori da parte del datore di lavoro.
Anche in ambito penalistico non vi è una specifica fattispecie di mobbing: la fonte di tutela si identifica perciò nei tradizionali rimedi del nostro ordinamento, ed è riconducibile a varie figure di reato come i maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., le lesioni personali di cui all’art. 582 c.p., e la violenza privata, art. 610 c.p.
E’ il lavoratore che dovrà dimostrare che nei suoi confronti è stata perpetrata una serie di comportamenti persecutori, come ad esempio critiche immotivate, dequalificazione professionale, isolamento, molestie. L’oggettiva difficoltà a provare i fatti è il maggior deterrente ad intentare azioni legali per mobbing. Va considerata anche la difficoltà di dimostrare la patologia, in quanto essendo una malattia psicologica non vi è diagnosi certa. Sono necessari certificati medici, perizie ed accertamenti tecnici che attestino lo stato di depressione, ma ciò non basta in quanto dovrà essere anche provato il nesso causale fra la condotta di mobbing denunciata e il danno subìto. La vittima dovrà poi provare che tali comportamenti non sono isolati, ma sono stati reiterati o perseveranti, e perpetrati entro un considerevole arco temporale (minimo un anno). Risultano a tal fine fondamentali le dichiarazioni testimoniali di coloro che durante gli atti persecutori si trovavano sul luogo di lavoro. Tuttavia è particolarmente complessa la dimostrazione della continuità degli eventi persecutori, proprio per la difficoltà nel trovare colleghi pronti a testimoniare contro gli altri colleghi o addirittura contro un superiore gerarchico. Ciò ha fatto sì che gli operatori giuridici ritengano fortemente aleatorie le cause intentate per mobbing.
Il difficile rapporto fra fattispecie astratta e dimostrazione giudiziale aveva fatto sì che una sentenza del 2000 cercasse di delinearne i confini giuridici. Nel caso concreto il giudice aveva escluso il mobbing in quanto conflittualità e scontro verbale erano stati considerati normali rapporti interpersonali sul luogo di lavoro. Compito dell’interprete è proprio stabilire quando la conflittualità si trasforma in atteggiamento persecutorio. L’assenza di definizione giuridica ha reso necessario il ricorso all’elaborazione di indici presuntivi per individuare quando un soggetto è sottoposto a mobbing. La Suprema Corte (sentenza n. 1262 del 23/01/2015), uniformandosi a precedenti orientamenti giurisprudenziali (4) enuclea come indici rilevanti ai fini della condotta lesiva: la molteplicità dei comportamenti persecutori protratti nel tempo anche leciti se considerati singolarmente; la sussistenza dell’evento lesivo nella sfera psico-fisica del lavoratore; il nesso causale fra condotta lesiva e pregiudizio psico-fisico; presenza dell’elemento soggettivo, ossia intento persecutorio, da una parte della dottrina ritenuto però non necessario per avere una situazione di mobbing. Secondo la Corte possono ricondurre al mobbing un insieme di atti «anche leciti se singolarmente considerati».
In sede processuale il mobbing è di più facile identificazione se si abbina a vicende oggettive come un demansionamento, oppure un licenziamento, o danni fisici, in tal caso con tutela di tipo penalistico. Ma per essere accertato come mobbing deve essere data prova della realizzazione di una serie di atti vessatori coordinati al fine di emarginare il dipendente.
Rilievi penalistici e criminologici
Nel rapporto fra mobbing e responsabilità penale, l’assenza di una specifica fattispecie rende necessario il ricorso ad altre figure di reato per la tutela della vittima: è possibile fare riferimento al reato di violenza privata prevista dall’art. 610 c.p., minaccia (art. 612 c.p.), atti persecutori (art. 612 bis c.p.), diffamazione (art. 595 c.p.), al reato di lesioni personali non solo fisiche ma anche psicologiche previsto dall’art. 582 c.p., e in particolare al reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p), fino ai più gravi reati di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), estorsione (art. 629 c.p.), istigazione al suicidio (art. 580 c.p.). Altra importante ipotesi di reato contestata in caso di mobbing è l’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.). E’ poi da considerare l’aggravante prevista dall’art. 61 n. 9 c.p., ossia l’aver commesso il fatto con abuso dei poteri, violazione dei doveri inerenti a pubblica funzione o servizio. A questi va aggiunto il risarcimento del danno patito dal soggetto, inteso non solo come eventuale danno biologico ma anche come danno psicologico.
Per aversi il mobbing però, il comportamento vessatorio deve essere sistematico, con le caratteristiche oggettive di una persecuzione e discriminazione ripetute nel tempo, e sorretto dalla consapevolezza di determinare nella vittima uno stato di sofferenza tale da renderle intollerabile la permanenza sul luogo di lavoro. Quando i comportamenti sono associati ad altri che rivelano il dolo, ovvero la coscienza e la volontà di ledere l’integrità fisica e morale del lavoratore, e quando sono protratti per un consistente lasso di tempo, potranno integrare il reato di maltrattamenti.
La sistematicità delle vessazioni può consistere in una serie di comportamenti come l’isolamento, l’attribuzione di incarichi meno qualificati o il demansionamento, che presi singolarmente non hanno rilevanza penale, ma la assumono se considerati nel complesso, proprio perché finalizzati alla svalutazione della dignità e personalità del lavoratore. Può però essere il risultato di comportamenti che costituiscono ipotesi di reato anche se autonomamente considerati, e che possono perciò essere perseguiti autonomamente, come la violenza privata, minacce, percosse o diffamazione. In questi casi sarà più facile ottenere una condanna, ed il mobbing assumerebbe la funzione di un aggravamento della pena. Resta però difficile cogliere sia la natura unitaria del fenomeno, che l’intento perseguito dal mobber. La Corte di Cassazione ha individuato un importante requisito nel rapporto di ‘para-familiarità’ tra i soggetti coinvolti, nel senso che, pur non rientrando nel contesto tipico della famiglia, il rapporto fra il mobber e la vittima deve comportare una relazione abituale e consuetudinaria di vita, per l’ipotesi di reato di maltrattamenti in famiglia (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza 6/2/2009, n. 26594). Questa sentenza della Suprema Corte rende certamente più facile l’applicazione della fattispecie di reato dei maltrattamenti in famiglia nei casi di mobbing, raffigurando perciò una maggior tutela penale del lavoratore.
Si è parlato del mobbing come un complesso di condotte vessatorie e persecutorie persistenti, sistematiche e protratte nel tempo (di solito di minimo un anno) generalmente nell’ambito lavorativo, da parte di colleghi, datori o superiori gerarchici nei confronti del lavoratore, che si concretano in comportamenti aggressivi e ostili, e con azioni che assumono forme di persecuzione psicologica col fine di emarginare il dipendente provocandogli un disagio con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e della personalità, causa di disturbi psicosomatici e dell’umore. Il contesto ambientale che vede nel mobbing un comportamento giuridicamente rilevante è quindi quello lavorativo. Tali violenze psicologiche perpetrate sul posto di lavoro hanno generalmente lo scopo di isolare una persona scomoda, distruggendola socialmente e psicologicamente in modo da causarne il licenziamento o le dimissioni. Gli effetti degli atteggiamenti persecutori provocano danni soprattutto psicologici alla vittima, traducendosi in una minor autostima e sicurezza in se stessi, forma ansiosa e depressiva, con rilevanti effetti sulla capacità lavorativa e di relazione. Il mobbing è perciò una forma di terrore psicologico esercitato sulla vittima che si manifesta esteriormente con: isolamento; emarginazione; persecuzione e violenza psicologica intenzionale; assegnazione di compiti dequalificanti; inattività forzata; trasferimenti ingiustificati; esercizio di forme di controllo; umiliazioni e offese dell’immagine sociale; attacchi per screditarne la reputazione; richiami e denigrazione in presenza di terzi con critiche alle capacità professionali e personali allo scopo di demotivare il soggetto; sanzioni immotivate; compromissione dello stato di salute con turni massacranti; violenze o minacce di violenza. Talune di queste azioni, se isolate non sono considerate illecite, ma diventano mobbing quando sono sistematiche e ripetute nel tempo.
Segnale premonitore del mobbing è una fase di anomalie relazionali fra vittima e mobber, prima che il comportamento si renda manifesto. Nel caso in cui la vittima denunci le vessazioni viene colpevolizzata dai suoi persecutori. Nella fase di allontanamento si ha l’isolamento della vittima che inizia a manifestare sindromi depressive, e può culminare con le dimissioni volontarie come tentativo di liberazione.
Dal punto di vista vittimologico il mobbing è la distruzione psicologica, mirata e continuata nel tempo sul luogo di lavoro, con ripercussioni sull’equilibrio psicofisico della vittima, causa di disturbi fisici di origine psicosomatica (gastrite, insonnia, ecc.) e psichici (insicurezza, attacchi di panico, ansia, stress, depressione, ecc.). Studi pubblicati da eminenti riviste (5) dimostrano l’impatto negativo dello stress, a seguito di tensioni sociali e azioni persecutorie, sul sistema cardiocircolatorio della vittima.
L’intenso coinvolgimento emotivo e psichico subìto dalla vittima non le consente di elaborare l’evento traumatico e mettere in atto strategie di adattamento comportamentale e cognitivo, di talché essa cade in uno stato di inerzia, senza reagire all’evolversi degli eventi, precipitando in un circolo vizioso di autocommiserazione e perdita di autostima. Gli effetti sul sistema psichico e nervoso sono inequivocabili, tanto che si parla di malattie specifiche da mobbing. I danni permangono per lungo tempo, i disturbi vengono somatizzati e nei casi più gravi divengono irreversibili. Si accusa un distacco dalla realtà, perdita della capacità di concentrazione e depressione, che si manifesta con sindromi maniaco persecutorie che non sempre la vittima riesce a collegare alle violenze psicologiche subìte nell’ambiente di lavoro.
La situazione psicologica è spesso aggravata dal fatto che le vittime del mobbing, ricorrano a sostanze alcooliche o psicotrope per ridurre lo stato di malessere, amplificando ulteriormente i disturbi e aggravando lo stato mentale. In condizioni di stress protratto si tende a cronicizzare la propria situazione psichica (autocommiserazione, senso di inadeguatezza) e sociale (rifiuto di rapporti sociali con chiunque e isolamento). Il calo dell’autostima e senso di colpa portano ad uno stato di frustrazione e ad una profonda crisi, che si ripercuote anche sul piano familiare e relazionale, fino ad una depressione che nei casi più gravi può indurre a meditare e tentare il suicidio.
Nella fase di accertamento sarà lo specialista, perito o tecnico del tribunale ad avvalersi, ad integrazione dell’esame obiettivo, di test ed esami psicodiagnostici. La valutazione psicodiagnostica si fonda sull’integrazione tra anamnesi, valutazione clinica, cioè colloquio e osservazione, e test, cognitivi e non cognitivi.
Il metodo più adeguato per limitare i danni del mobbing è il supporto di un esperto, cioè uno psicologo che aiuti la vittima a non chiudersi in se stessa e a reagire al disagio. Non sempre però le vittime si rendono conto dei propri disturbi conseguenti al mobbing, nonostante la sintomatologia sia evidente. I sintomi più diffusi sono gli stati d’ansia e alterazione della condotta, disturbi del sonno e del comportamento, farmacodipendenze, disturbi psicosomatici (tachicardia, emicranie, colite, ecc.). Col tempo i problemi psicologici si aggravano fino a sviluppare un vero e proprio quadro psicopatologico con gravi sintomatologie ansioso-depressive e disturbi che tendono a cronicizzarsi assumendo la forma di sindrome dei disturbi post-traumatici cronici da stress, disturbo dell’adattamento, Burnout, attacchi di panico, disturbo di personalità paranoide, depressione endogena. L’intervento dello psicologo dovrebbe avvenire sotto due profili: la terapia farmacologica, e la psicoterapia, in particolare le terapie sistemiche di gruppo.
Straining
Il termine ‘straining’ deriva dall’inglese forzare, affaticare, e si concretizza in vessazioni e persecuzioni compiute sul luogo di lavoro, con ripercussioni sull’equilibrio psicofisico della vittima. La differenza con il mobbing consiste nel fatto che strainer e vittima si trovino in rapporti parafamiliari, cioè fra loro sussista un rapporto consuetudinario di frequentazione intensa. Nonostante non vi sia una nozione o fattispecie giuridica di straining, tali atteggiamenti persecutori andrebbero ad integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.). Mentre nel mobbing è necessario dimostrare in giudizio una continuità di comportamenti, per la dimostrazione dello straining basta una singola azione persecutoria. Il fenomeno infatti si esaurisce con una singola condotta con effetti duraturi, come ad esempio il demansionamento di un lavoratore. La maggior semplicità nel provare lo straining, lo rende più efficace nella lotta contro le vessazioni sul luogo di lavoro.
Impulsi motivazionali del mobber
Le motivazioni del mobber possono essere molteplici: dalla semplice politica aziendale con lo scopo di ridurre gli organici contenendo i costi del personale (c.d. mobbing pianificato) a motivazioni puramente psicologiche come il bisogno di dominio del prossimo, o più comuni come il razzismo nei confronti di minoranze e la competizione.
Ad uno o più mobber e alla vittima spesso si aggiungono gli spettatori che, pur non essendo direttamente coinvolti, tengono comportamenti che possono influire sulle vessazioni incentivandole ovvero tenere un comportamento passivo di mero spettatore. Gli spettatori sono di solito colleghi che rifiutano di assumere posizioni e restano indifferenti, o aiutano il mobber in quanto hanno timore di diventare loro stessi vittime.
Un importante aspetto riguardo la motivazione dell’agire, evidenziato da D. R. Cressey, è quello della ricerca da parte del mobber del mantenimento o acquisizione di uno status sociale di spicco nell’ambito del gruppo, a scapito della vittima. Ciò evidenzia nel mobber una forte personalità narcisistica, in quanto con qualsiasi mezzo, anche a danno degli altri, deve emergere nel gruppo. Questo non avviene solo per aggressività ed egoismo, ma anche per un senso di insicurezza del mobber, che lo induce a far subire ad altri le vessazioni per un senso di autodifesa e per essere rispettato dai colleghi.
La recente normativa del lavoro e il mobbing
La reintegrazione nel posto di lavoro per i dipendenti illegittimamente licenziati, ridotta a rimedio eccezionale dalle recenti normative sul lavoro, non ha fatto altro che dare maggior potere al datore di lavoro ed a condurre il lavoratore in uno stato di soggezione tale da essere più esposto a casi di mobbing verticale. La possibilità di licenziare il dipendente con un semplice indennizzo e il ruolo marginale del sindacato, hanno infatti attribuito al datore maggior potere nei confronti del lavoratore, che per non perdere il posto di lavoro deve sottostare alle richieste più o meno lecite e ai ricatti della dirigenza. Ad esempio il c.d. ‘demasionamento facile’ offre al mobber uno strumento di pressione nei confronti dei lavoratori.
Permane inoltre, per il lavoratore, la difficoltà di prova nel giudizio circa l’intento vessatorio dell’autore del mobbing. Il demansionamento non rappresenta più per la giurisprudenza un valido elemento da cui poter desumere l’intento vessatorio e la sussistenza del dolo, perciò vengono a mancare elementi oggettivi su cui fondare un’accusa di mobbing. Inoltre le ragioni di riorganizzazione e di riassetto economico dell’azienda costituiscono in giudizio un facile argomento per giustificare demansionamenti e licenziamenti.
Conclusioni
Nonostante l’importanza assunta negli ultimi decenni, nel nostro Paese il mobbing non gode ancora della dovuta attenzione. La mancanza di un’autonoma fattispecie giuridica e soprattutto le difficoltà nel provare i fatti, costituiscono un deterrente per chiunque voglia querelare datore di lavoro o colleghi che si rendano protagonisti di atteggiamenti persecutori. La problematicità più consistente è rappresentata dalla necessità di provare il nesso causale fra i danni psicofisici e le condotte vessatorie, e soprattutto la persistenza e ripetitività degli eventi. In alcuni Paesi con cultura giuridica di Common Law, è stata introdotta la nuova fattispecie di straining, che risolve gran parte delle problematicità. Per la dimostrazione dello straining basta infatti una singola azione persecutoria, a differenza del mobbing che richiede la dimostrazione in giudizio di una continuità delle condotte persecutorie.
La mancanza di attenzione del nostro legislatore verso il mobbing era stata, a partire dagli anni novanta, in parte soppiantata dalla giurisprudenza di legittimità. La situazione odierna del lavoratore, di maggior precarietà e soggezione nei confronti di superiori gerarchici e datori di lavoro, non ha fatto altro che moltiplicare i casi di bossing e diminuire ulteriormente le denunce per persecuzioni sul luogo di lavoro. Si riscontra una maggior sfiducia delle vittime del mobbing nel ricorrere alle corti. La creazione di una specifica fattispecie giuridica di mobbing, che possa identificarne le caratteristiche in modo certo e predeterminato, in una logica moderna di certezza del diritto, sarebbe la soluzione ideale. Nel 2017 in Commissione Giustizia della Camera è stato depositato un testo che prevede l’introduzione nel codice penale del reato specifico di mobbing. L’entrata in vigore di una legge che prevede il reato di mobbing o straining sarebbe un enorme passo avanti, ma è altresì necessario predisporre tutele concrete per quei dipendenti che testimoniano a favore di un collega vittima di mobbing.
(1) Leymann H. (1992), Leymann inventory of psychological terror, Violen, Karlskrona.
(2) Termine introdotto in psicologia del lavoro da R. D. Brinkmann, Mobbing, bullying, bossing.
(3) Ege H. (1996), Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Pitagora.
(4) Il mobbing si concreta in una serie di comportamenti vessatori protratti nel tempo nei confronti di un lavoratore da parte del gruppo di lavoro o dal suo capo, con intento persecutorio finalizzato all’esclusione dal gruppo. Devono quindi ricorrere molteplici elementi: una serie di comportamenti persecutori protratti nel tempo anche leciti se considerati singolarmente; l’elemento soggettivo, cioè la volontà persecutoria e vessatoria del datore, superiore o altro dipendente; l’evento dannoso; il nesso fra condotta e lesione (Cass. lav. 8855/2013).
(5) Fra queste in particolare l’“American Journal of Physiology”.