Immobile in leasing: la doppia cessione dell’immobile non è indice di un’operazione elusiva/abusiva
(di Serena Giglio e Roberta Dorotea Roscigno)
Con il presente contributo ci proponiamo di approfondire alcuni aspetti concernenti il contratto di leasing immobiliare, il quale è stato analizzato dalle Corti di merito romane, con particolare riguardo agli Avvisi di Accertamento, sempre più frequenti, emessi dall’Agenzia delle Entrate per contestare la deducibilità dei canoni di locazione finanziaria, ai fini delle imposte dirette e la detraibilità della correlativa IVA, in relazione a quelle fattispecie caratterizzate da una doppia e contestuale cessione del bene immobile a valori crescenti, seppur di mercato, con concessione finale dello stesso in leasing ad un’impresa utilizzatrice.
Per inquadrare la questione e prima di analizzare le conclusioni a cui sono pervenute la Commissione Tributaria Provinciale di Roma e la Commissione Tributaria Regionale del Lazio nelle diverse sentenze meglio specificate di seguito, occorre, anzitutto, definire cosa sia un’operazione di leasing immobiliare, prima, secondo la disciplina del codice civile, e poi, secondo il legislatore tributario. Tale analisi, a parere di chi scrive, è tanto più interessante considerata la rapidissima diffusione del contratto in esame dovuta alla grande convenienza che questo strumento di finanziamento presenta nei confronti di altri più tradizionali e la possibilità per l’impresa utilizzatrice di dedurre sia ai fini Ires sia ai fini Irap i costi relativi ai canoni di locazione sostenuti nonché di beneficiare della detrazione ai fini IVA.
Ci si limita a ricordare, ai fini che qui ci occupano, che la figura contrattuale del leasing, introdotta negli Stati Uniti per poi essere importata in Europa, risulta dal combinato disposto degli artt. 1523 (cd. vendita con patto di riservato dominio) e 1523 (cd. contratto di locazione) del codice civile. In particolare, il leasing immobiliare è un contratto di leasing finanziario avente ad oggetto beni immobili, con il quale una banca o un intermediario finanziario (concedente), su scelta ed indicazione del cliente (utilizzatore), acquista o fa costruire da un terzo fornitore i beni de quo, al solo fine di concederli in uso al cliente stesso per un determinato periodo di tempo e dietro il pagamento di un canone periodico. Alla scadenza del contratto è prevista per l’utilizzatore la facoltà di acquistare il bene stesso, previo l’esercizio dell’opzione di acquisto, con il pagamento di un prezzo che nel linguaggio comune prende il nome di prezzo di riscatto oppure può decidere di restituirli al concedente. Nel contratto di locazione finanziaria il fornitore e l’utilizzatore potrebbero anche coincidere: in tal caso si parla di operazione di sale and lease-back, con la quale un’impresa vende un bene strumentale ad una società finanziaria, la quale ne paga il prezzo e contestualmente lo concede in locazione finanziaria alla stessa impresa venditrice, verso il pagamento di un canone e con possibilità di riacquisto del bene al termine del contratto per un prezzo normalmente molto inferiore al suo valore.
Sotto il profilo fiscale, l’ unica definizione del contratto in esame è quella prevista dall’art. 17, comma 2 della legge n. 183 del 2 maggio 1976, a mente del quale “Per operazioni di locazione finanziaria si intendono le operazioni di locazione di beni mobili e immobili, acquistati o fatti costruire dal locatore, su scelta e indicazione del conduttore, che ne assume tutti i rischi, e con facoltà per quest’ultimo di divenire proprietario dei beni locati al termine della locazione, dietro versamento di un prezzo prestabilito”. Peraltro, si deve rammentare che ai sensi dell’art. 102, comma 7, del d.P.R n. 917 del 1986 “Per i beni concessi in locazione finanziaria l’impresa concedente che imputa a conto economico i relativi canoni deduce quote di ammortamento… Per l’impresa utilizzatrice che imputa a conto economico i canoni di locazione finanziaria…. la deduzione è ammessa…”. Secondo quanto testè riportato ne consegue, quindi, che i canoni di locazione finanziaria rappresentano per l’utilizzatore (impresa o lavoratore autonomo) un costo deducibile in sede di dichiarazione dei redditi.
Vale la pena evidenziare che nella sentenza n. 9944 del 2000, gli Ermellini hanno chiarito che il contratto in esame “risponde ad una specifica esigenza di finanziamento”, stante la ratio sottesa, che è quella di “fornire i mezzi finanziari necessari a chi abbia interesse ad utilizzare un bene (strumentale o di consumo), ma non intenda acquistarlo immediatamente (immobilizzando risorse) e preferisca, invece, rinviare tale opportunità ad un momento successivo, dopo avere utilizzato il bene per un determinato periodo di tempo”[1].
Chiarito cosa sia un’operazione di leasing immobiliare ed i tratti essenziali, bisogna ora interrogarsi se sia legittima la deducibilità integrale dei canoni di locazione sostenuti dall’impresa utilizzatrice nell’ipotesi in cui l’Amministrazione contesti una sproporzione tra il prezzo di acquisto del complesso immobiliare da parte della società di leasing ed il suo valore di mercato.
Giova, al riguardo, analizzare un particolare caso sottoposto all’esame della Commissione Tributaria Provinciale e Regionale di Roma, riguardante un accertamento in materia di Irpef, Iva e Irap, emesso proprio in ragione di una sostanziosa sproporzione tra il prezzo di acquisto di un complesso immobiliare da parte della società di leasing ed il suo valore di mercato, che, ad avviso dell’Amministrazione finanziaria, faceva supporre l’esistenza di una volontà simulatoria in capo ai partecipanti volta ad occultare un finanziamento.
In specie, l’Amministrazione finanziaria riteneva dissimulato un finanziamento – in relazione a cui disconosceva la deducibilità dei canoni di leasing ai fini delle imposte dirette e l’indetraibilità della correlativa IVA – per il fatto che, a proprio dire, attraverso una simulazione relativa oggettiva, le parti avessero dissimulato i seguenti rapporti: i) una cessione del bene immobile tra i soggetti X ed Y al valore Z (ii) una seconda cessione contestuale tra i soggetti Y e L (società di leasing) al valore Z+W (iii) la concessione da parte della stessa concedente (i.e. società di leasing) di un finanziamento nei confronti della società utilizzatrice finale K per l’importo pari a W (coincidente con la differenza tra il prezzo della seconda cessione tra Y e L concedente e quello della prima cessione tra X e Y). In altre parole, secondo l’Amministrazione finanziaria ciò che faceva presumere un intento elusivo alla base della appena citata operazione immobiliare, era il fatto che il medesimo complesso immobiliare risultava ceduto due volte nello stesso giorno con un incremento di prezzo pari a W (nel caso di specie, coincidente con svariati milioni di euro).
Nella fattispecie de quo si sono espressi i giudici della Commissione Tributaria Provinciale di Roma, sezione 11, con ben tre sentenze (sentenze nn. 23099/11/14, 23100/11/14 e 23101/11/14) nelle quali hanno disatteso integralmente la tesi dell’Amministrazione finanziaria ed hanno avallato la difesa della Contribuente (i.e. società utilizzatrice)[2]. In particolare, i summenzionati giudici dopo aver brevemente ripercorso quanto osservato e disposto, a più riprese, dalla Corte di Cassazione con riferimento alla particolare tipologia di contratto atipico rappresentato dal leasing, sottolineano come: “il lease-back, nella sua configurazione di vendita di un bene strumentale dell’impresa e contestuale concessione in leasing dall’acquirente concedente al venditore utilizzatore, risponde alla specifica esigenza delle attività imprenditoriali di potenziare i fattori produttivi di natura finanziaria, ottenendo immediata liquidità mediante la alienazione di propri beni strumentali, con facoltà di conservarne l’uso e di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto a condizione dall’analisi dei dati oggettivi dell’operazione ed in particolare alla sproporzione tra il valore del bene ceduto in garanzia ed entità del debito possa essere escluso ogni intento fraudolento per eludere il divieto previsto dal citato art. 2744 cc.. Tali indicazione fanno ritenere a questa Commissione che la sopravvalutazione degli immobili oggetto dell’operazione non possa essere considerata quale elemento di caratterizzazione negativa del contratto posto in essere”. Rilevano, peraltro, che “la stessa Corte di Cassazione (Sentenza n. 9944 del 2000) esaminando il problema relativo al trattamento fiscale applicabile ai contratti di sale and lease back e se questo dovesse essere difforme da quello applicabile ai contratti di locazione finanziaria aveva respinto la tesi secondo cui tali operazioni, non avendo altra giustificazione causale se non quella di soddisfare una immediata esigenza di liquidità, debbano essere considerati sostanzialmente diverse da quelle di locazione finanziaria e che, pertanto, non avrebbero dovuto essere assoggettate allo stesso trattamento fiscale. Secondo i Giudici citati anche il contratto di leasing, risponde, infatti, ad un’esigenza di finanziamento, essendo diretto a fornire i mezzi finanziari necessari a chi abbia interesse ad utilizzare un bene (strumentale o di consumo), ma non intenda acquistarlo immediatamente (immobilizzando risorse) e preferisca, invece, rinviare tale opportunità ad un momento successivo, dopo avere utilizzato il bene per un determinato periodo di tempo. Per effetto di tale caratterizzazione il citato contratto non può essere assimilato alla vendita con riserva della proprietà: l’acquisto della proprietà del bene da parte dell’utilizzatore non rappresenta, infatti, la conseguenza indeclinabile del pagamento dell’ultima rata, ma è rimesso ad un’opzione, che può anche non essere esercitata, specie quando i beni sono soggetti ad una rapida obsolescenza. Né, d’altro canto, il contratto potrebbe essere inquadrato negli schemi della locazione, dal momento che i canoni non rappresentano il corrispettivo del godimento del bene, essendo commisurati alla somma impiegata (e quindi anticipata) per l’acquisto del bene dalla società concedente, maggiorata dei costi dell’operazione e degli interessi, e che la mancata consegna, i vizi e lo stesso perimento del bene non esonerano l’utilizzatore dall’obbligo di effettuarne il pagamento. La c.d. causa “di finanziamento”, lungi dall’assumere il ruolo di elemento distintivo dei due istituti, ne rappresenta quindi il tratto comune e ne giustifica l’uniforme trattamento sul piano giuridico”.
Per dimostrare la liceità del contratto di sale and lease – back i giudici della sezione 11 della CTP di Roma sottolineano che la Corte di Cassazione “in presenza di un rapporto, come nella specie trilatero (sale and lease-back) ha ritenuto irrilevante, ai fini della liceità delle transazioni, che l’impresa venditrice appartenga, come nella specie, allo stesso gruppo di quella utilizzatrice Cass.6663/97) potendosi configurare un patto commissorio vietato soltanto nel caso di interposizione fittizia dell’utilizzatrice, la quale invece nel caso di effettività del trasferimento del bene, come nella fattispecie poteva legittimamente affidare a quello schema contrattuale la garanzia del proprio debito, presentando il contratto di lease-back autonomia strutturale e funzionale (Cass.4612/98) quale contratto d’impresa, atto a realizzare un’alienazione a scopo di garanzia. Infatti il lease-back è un contratto atipico rientrante nell’autonomia delle parti ex art.1322 c.c., composto sostanzialmente da due contratti uno di vendita e uno di leasing-locazione finanziaria, cui può aggiungersi la garanzia di un terzo e ciò in quanto, se è vero che la funzione perseguita è quella del finanziamento, è vero altresì che l’utilizzatore finale vuole ottenere una somma di danaro non a titolo di mutuo (per ciò basterebbe ottenere in prestito la somma richiesta dando una garanzia ipotecaria sul bene), ma mantenere la disponibilità di un bene di cui cede la titolarità, per poi riacquistarla, ipotesi nella quale il concedente si tutela legittimamente attraverso l’intervento di un garante.
Il sostanziale disconoscimento, da parte degli uffici finanziari (…) di tale complesso negozio, che consente all’impresa liquidità immediata attraverso l’alienazione di un bene strumentale di cui conserva l’uso con facoltà di riacquistarne la proprietà, ha comportato, nello stesso periodo, la convinzione per gli stessi Uffici, che tale contratto dovesse essere visto unitariamente come contratto di mero finanziamento, esente da IVA, o comunque con IVA non detraibile, il che giustifica le ipotesi elusive prospettate a fronte di operazioni distinte, assoggettate come tali al tributo. Peraltro, nel caso in esame potrebbe prevalere la tesi dell’Amministrazione, ove fosse palese l’antieconomicità delle singole operazioni poste in essere, come nel caso di canoni di leasing ad un prezzo inferiore a quello di acquisto (cfr.Cass.11599/2007)”[3] [4] [5].
Sulla scorta di quanto sopra riportato può, pertanto, affermarsi che l’operazione di leasing immobiliare oggetto di analisi sia stata ritenuta legittima dalla Corti romane e che il prezzo crescente della seconda cessione alla società di leasing sia correlato ai valori di mercato ed alle esigenze di garantire future operazioni di smobilizzo, per cui ne consegue la integrale deducibilità dei canoni di locazione finanziaria sostenuti dalla società utilizzatrice finale.
Nell’identico senso la recentissima sentenza n. 330/22/15, depositata in data 27 gennaio 2015, emessa dalla sezione 22 della Commissione Tributaria Regionale di Roma, che sconfessa completamente, in relazione alla stessa ed identica fattispecie, la tesi dell’Amministrazione finanziaria[6].
In specie, anche con l’appena menzionata sentenza, gli aditi giudici hanno ritenuto fondate e meritevoli di accoglimento le eccezioni sollevate dalla società utilizzatrice, osservando che “l’operato accertativo dell’Ufficio, correlato, a monte, con una presunzione di abuso del diritto, si fonda su elementi inadeguati e facilmente confutabili, anche perché non opportunamente provati”. I
n aggiunta a quanto rilevato nella sentenza della C.T.P. di cui sopra, circa la presunta sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo finale versato dalla società utilizzatrice, i giudici sostengono che “appare invero quantomeno opinabile, sia perché fondata su valutazione Omi la quale ha una valenza solo indicativa e sia perché contraddetta dalla perizia di parte versata agli atti. Conseguentemente, neppure tale circostanza può ritenersi comprovante la simulazione presunta dall’Ufficio”.
Di conseguenza, ad avviso della C.T.R., “devono essere considerate le pur legittime aspettative di guadagno per la società” fornitrice “la quale certamente non poteva rivendere, se non violando il principio dell’antieconomicità, allo stesso prezzo per il quale essa stessa aveva acquistato. Altresì non può essere sottovalutato il fatto che il maggior valore della vendita ha determinato una plusvalenza che ha concorso a formare il reddito sottoposto ad immediata tassazione, a fronte dei costi deducibili nel corso della durata del contratto di leasing”.
Pertanto, alla luce delle argomentazioni riportate, i giudici di merito – valorizzando l’operazione nel contesto del business dei soggetti partecipanti, così da rilevare le ragioni economiche alla base della stessa – hanno concluso che un contratto di leasing immobiliare sia pienamente legittimo, ove il valore dell’immobile sia determinato “secondo una più ampia accezione dei criteri di mercato, ma non per questo fuori da ogni logica economica, come sostiene l’Ufficio, dovendosi necessariamente tener conto, per completezza dell’esame del criterio valutativo seguito dalle parti, che l’immobile medesimo era completamente locato e che i rapporti locativi venivano ceduti unitamente ad esso, talché la società utilizzatrice avrebbe incassato somme importanti”.
Oltre a quanto sopra riferito, si riscontrano le recenti posizioni favorevoli della Commissione Tributaria Provinciale e Regionale di Roma, in relazione ad un caso assolutamente analogo a quello appena esaminato. In particolare, la Commissione Tributaria Provinciale di Roma, nella sentenza n.198/20/2012 del 5 giugno 2012 è pervenuta alle medesime conclusioni raggiunte dalla CTR di cui sopra[7].
Ed invero, la sopracitata sentenza fa riferimento ad un accertamento in materia di IVA ed imposte dirette emesso in ragione di una sostanziosa sproporzione tra il prezzo di acquisto degli immobili da parte delle società di leasing ed il loro valore di mercato che faceva supporre l’esistenza di una volontà simulatoria in capo ai partecipanti volta ad occultare l’erogazione di un finanziamento.
In specie, l’Amministrazione finanziara riteneva dissimulato un finanziamento – in relazione a cui disconosceva la deducibilità dei canoni di leasing ai fini delle imposte dirette e l’indetraibilità della correlativa IVA – per il fatto “che quattro società, appartenenti al medesimo gruppo, nel maggio 2005, avevano acquistato i medesimi immobili ad un prezzo complessivo di Euro 118 milioni, mentre nel mese di giugno dello stesso anno, li avevano venduti al prezzo complessivo di Euro 150 milioni”.
Al riguardo, la Commissione – nonostante l’appartenenza delle società coinvolte nell’operazione addirittura al medesimo gruppo – ha concordato con l’argomento difensivo circa “la infondatezza della tesi che il maggior valore della seconda vendita sarebbe stato voluto solo allo scopo di beneficiare di maggiori oneri deducibili, perché (…) in realtà il maggior valore che l’Ufficio contesta come veritiero, ha determinato una plusvalenza (differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di cessione), che ha concorso a formare il reddito sottoposto ad immediata tassazione a fronte di costi ( i canoni), deducibili in un arco temporale di quindici anni” e ha concluso che “l’operazione (…) posta in essere è del tutto legittima e non simula un finanziamento anche parziale”.
In altri termini, il Collegio romano ha evidenziato come dalla doppia cessione a prezzi differenti si genera una plusvalenza sottoposta regolarmente a tassazione e già tanto sarebbe inconciliabile ed incoerente con la volontà del secondo cedente, in accordo con l’utilizzatore finale del contratto di leasing di dissimulare un finanziamento; a ciò si aggiunga che nel doppio passaggio vengono versate due volte le imposte d’atto (i.e. registro ed ipotecarie e catastali).
In altre parole, i giudici di merito fanno intendere che non è certo con la presenza di carichi impositivi di tal fatta, infatti, che si concertano le fattispecie elusive!
Da ultimo, in senso pienamente conforme a quanto appena riportato, anche nella sentenza di secondo grado n. 2731/04/2014 del 6 maggio 2014, successiva all’appena menzionata sentenza n. 198/20/2012, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio ha avuto modo di confermare, ancora una volta, che il rilievo che l’Amministrazione “solleva in relazione a detta operazione, è che l’alienazione degli immobili alle società di leasing al prezzo di 150.000.000,00 solo venti giorni dopo l’acquisto di detti immobili per il valore di € 118.350.000,00 ha costituito <una sopravalutazione sproporzionata degli stessi rispetto al valore di mercato e tale da far presumere l’intenzione di dissimulare altri rapporti ossia a far ritenere ulteriori disponibilità finanziarie al gruppo…. [di società] rispetto a quelle necessarie per riacquistare il bene, prescindendo dall’effettivo valore dello stesso. Il giudice di primo grado ha ampiamente affrontato la questione della legittimità giuridica del lease-back che la Suprema Corte ha ritenuto, dopo alcuni tentennamenti, sussistere in quanto, nella sua configurazione di vendita di un bene strumentale dell’impresa e contestuale concessione in leasing dall’acquirente concedente al venditore utilizzatore, risponde alla specifica esigenza delle attività imprenditoriali di potenziare i fattori produttivi di natura finanziaria, ottenendo immediata liquidità mediante la alienazione di propri beni strumentali, con facoltà di conservarne l’uso e riacquistarne la proprietà al termine del rapporto. Pertanto, l’operazione di lease–back realizzata dalla….[società] appare legittima, in quanto è finalizzata a potenziare le proprie capacità finanziarie attraverso la cessione di un bene strumentale del quale ha interesse a mantenere la disponibilità e ad effettuare il riacquisto. La determinazione del prezzo è stata effettuata attraverso una perizia da parte di società qualificata, che ha determinato il valore del bene. Il contratto di leasing, della durata di 15 anni (la durata del contratto è uno degli indici presi in considerazione dal giudice di legittimità), indica i canoni dovuti ed il prezzo di opzione. L’Ufficio, d’altronde, non ha individuato fattori di strumentalità dei canoni pattuiti; tanto che la ripresa a tassazione viene fatta in forma percentuale sui canoni previsti, in relazione alla discrasia tra il prezzo di acquisto degli immobili e lo sproporzionato prezzo di vendita. Deve pertanto confermarsi la piena legittimità di tutta l’operazione di lease-back posta in essere, sia sotto il profilo del valore della cessione, sia sotto quello, peraltro non contestato, della coerenza dei canoni di locazione sostenuti dalla società appallata. Infatti la prima cessione (cioè quella avvenuta al prezzo di e 118.350,00) era funzionale alla richiesta delle società di leasing interessate all’operazione che avevano ritenuto, come condizione necessaria, che la proprietà degli immobili fosse in capo al medesimo soggetto titolare del debito garantita da ipoteca sugli stessi. L’aver concordato con le società acquirenti in € 150.900.000,00 il prezzo della cessione, ha peraltro determinato una plusvalenza che ha concorso a formare il reddito dell’appellata e come tale è stato tassato. Di contro la società si è creata costi deducibili, rappresentati dai canoni di locazione, per l’arco temporale della durata del contratto”[8].
In conclusione, le cennate sentenze della Commissione Tributaria Provinciale e Regionale di Roma appaiono pienamente condivisibili, e ad avviso di chi scrive rappresenteranno un eccellente strumento di difesa – soprattutto processuale – contro quelle azioni fortemente illegittime e lesive dei diritti del contribuente con cui l’Amministrazione finanziaria contesta, sempre più spesso, in verità, l’esistenza di un comportamento elusivo/abusivo attuata attraverso operazioni di leasing immobiliari volte a dissimulare un presunto finanziamento occulto.
In termini più pratici, allorquando il contribuente, nell’ambito di una operazione simile a quella analizzata, si veda notificato un avviso di accertamento con cui l’Amministrazione finanziaria recuperi a tassazione i costi dedotti per i canoni di leasing sostenuti, con l’accertamento di una maggiore IRES ed IRAP nonché accerti un importo a titolo di indebita detrazione dell’IVA, potrà contestare a gran voce e con rigore l’operato dell’Ufficio adducendo la piena legittimità dell’operazione stessa come sancita con orientamento univoco dalle Corti romane.
Note
[1] Cfr. Sent. Cass. n. 9944/2000.
[2] Cfr. Sent. C.T.P. Roma nn. 23099/11/14, 23100/11/14 e 23101/11/14.
[3] Cfr. Sent. Cass. n. 6663/97.
[4] Cfr. Sent. Cass. n. 4612/98.
[5] Cfr. Sent. Cass. n. 11599/2007.
[6] Cfr. Sent. C.T.R. Roma n. 330/22/15.
[7] Cfr. Sent. C.T.P. Roma n. 198/20/2012.
[8] Cfr. Sent. C.T.R. Lazio n. 2731/04/2014.