(di Ferdinando Zamprogno2, Alfredo De Filippo1, Fabio Gabrielli2,3, Glenda Cappello3, Massimo Cocchi 2,3, Lucio Tonello2,3)
1. Introduzione
“Hic sunt leones” era la locuzione usata dai cartografi di un tempo per circoscrivere ed indicare un area del tutto inesplorata. Ebbene, all’argomento che tratteremo qui potrebbe essere associata la stessa espressione. Come vedremo infatti, il Neuro-diritto è un territorio ancora piuttosto sconosciuto e molto insidioso.
Qualcuno ha già rilevato che “le varie discipline nate grazie al prefisso “neuro” stanno cercando, per così dire, di scavalcare la mente, l’oggetto di studio della psicologia“[1], anche se altri autori hanno ribattuto che “le violente reazioni degli psicologi che rivendicano l’appartenenza al loro campo di discipline di queste problematiche” è da ascriversi per lo più a corporativismo[2].
Forse, “Neuroscienze e diritto” invece di “Neuro-diritto” potrebbe far agitare meno gli animi, sta di fatto che se vogliamo guardare più alla sostanza che alla forma, l’oggetto di indagine dovrà essere affrontato in modo pluridisciplinare.
2. Le origini
Lo studio del collegamento tra comportamento e cervello ebbe uno slancio a seguito del caso Phineas P. Gage, divenuto famoso e di grande interesse per i neuroscienziati.
Gage era un addetto di un’impresa di costruzioni che nel 1848 stava lavorando per realizzare una linea ferroviaria nel Vermont. Doveva inserire, in un foro scavato nella roccia, dell’esplosivo in polvere, pressarlo con una barra di ferro e introdurre la miccia. Non si accorse di pressare la polvere provocando scintille nella roccia e la carica esplose violentemente: la barra metallica trapassa la guancia sinistra e fora la base della scatola cranica attraverso la parte frontale del cervello per uscire velocemente dalla testa. Gage rimane sorprendentemente cosciente e sopravvive all’incidente. Dal quel momento tuttavia, cambia completamente personalità, e secondo il resoconto del suo medico, dott. Harlow, diventa: “bizzarro, insolente, capace a volte delle più grossolane imprecazioni, da cui in precedenza era stato del tutto alieno; poco riguardoso nei confronti dei compagni; insofferente di vincoli o consigli che contrastassero i suoi desideri; a volte tenacemente ostinato, e però capriccioso e oscillante; sempre pronto a elaborare molti programmi di attività future che abbandona non appena li aveva delineati […] un bambino, nelle sue manifestazioni e capacità intellettuali, ma con le passioni animali di un adulto robusto”[3].
Il neurologo Antonio Damasio analizzando il caso di Phineas P. Gage ha scritto che “non vi è dubbio che fu la lesione cerebrale circoscritta in un sito specifico a provocare il cambiamento di personalità di Gage; ma questa spiegazione sarebbe apparsa chiara solo due decenni dopo l’incidente, e solo in questo secolo sarebbe divenuta veramente accettabile”[4]. Damasio, tuttavia, mette in guardia da facili riduzionismi affermando che è sbagliato concludere, ad esempio, che la mancanza o meno di un neurotrasmettitore come la serotonina possa essere causa, da solo, di un comportamento sociale adattativo o causa di aggressività.
Il dibattito appare subito interessante nell’ambito del diritto. I primi ad occuparsi di diritto con taglio neuro-scientifico furono soprattutto studiosi dell’area di common law, probabilmente favoriti da un sistema che si adatta ai cambiamenti e agli sviluppi della scienza. Infatti, negli ordinamenti giuridici basati sul common law, la norma è contenuta nelle sentenze dei giudici per cui, la regola dettata dal giudice in una controversia, vale per tutte le successive aventi lo stesso ambito oggettivo. Mentre nei sistemi di civil law, come quello italiano, è il diritto scritto la fonte primaria della norma, per contro, nel common law sono le decisioni del giudice la principale fonte del diritto.
Dunque, nei paesi anglosassoni, dove vige il sistema di common law, si assiste con sempre maggior frequenza ad indagini neuro-scientifiche i cui esiti assumono un peso preponderante nella fase processuale e tali da far scemare o eliminare la responsabilità penale dell’imputato. In particolare, come evidenziato in un recente contributo, “gli Stati Uniti sono attualmente l’unico paese nel quale le scoperte neuro-scientifiche hanno prodotto una casistica ed una letteratura giuridica degne di tal nome. A differenza della maggior parte dei sistemi di civil law, sistema italiano compreso, ove dell’accertamento scientifico è incaricato un perito esperto nominato dal giudice, negli Stati Uniti la questione è rimessa alle parti che sono onerate della prova”[5].
A tale proposito, si cita a titolo di esempio il caso Weinstein nell’anno 1992 dove un uomo di 65 anni, dirigente d’azienda, fu accusato di aver strangolato sua moglie e di aver gettato il cadavere dalla finestra di casa al dodicesimo piano, nel tentativo di simulare un suicidio. L’avvocato difensore aveva sostenuto che il suo cliente non era responsabile per il fatto accaduto in quanto la PET aveva diagnosticato una cisti anormale inclusa nella membrana aracnoidea del suo cervello. La Corte ammise la prova e l’uomo fu condannato per il reato di omicidio non intenzionale. Analogamente nel caso Hinckley (l’attentatore del presidente Reagan): la difesa propose un’infermità di mente a causa di una atrofizzazione di un’area cerebrale diagnosticata dalla Tomografia Computerizzata. Anche in questo caso la Corte ammise la prova che tendeva a dimostrare il nesso tra atrofizzazione e la presenza di un disturbo organico del cervello comportante la schizofrenia.
Vero è che la fortissima accelerazione all’applicazione delle scoperte neuro-scientifiche in ambito processuale è dovuta anche alla tecnologia, che ha messo in campo una serie di dispositivi di indagine medica molto avanzati, come la tomografia computerizzata (TC) che fornisce informazioni sulla struttura del cervello, la risonanza magnetica (RM) che permette di esaminare la neuroanatomia, la RM funzionale (FMRI) che con la tomografia a emissione di positroni (PET) e la tomografia a emissione di singoli fotoni (SPECT) consente di visualizzare il funzionamento del cervello in vivo, la Diffusion Tensor Imaging (DTI) che misura la velocità di diffusione dell’acqua per cui evidenzia le fibre di connessione tra aree cerebrali diverse, la Voxel Based Morphometry (VBM) che permette di rilevare la densità dei neuroni e degli assoni e, in tal modo, di evidenziare alterazioni anatomiche anche molto lievi.
Ma come dice Batts, la questione è preoccupante dal momento “che non tutte le lesioni e anomalie cerebrali indicano uno stato mentale compromesso rilevante per la capacità di intendere e di volere al momento della commissione del fatto reato”[6].
3. I primi casi in Italia
Nel settembre del 2009 la Corte d’Assise d’Appello di Trieste aveva emesso una sentenza che stabiliva una riduzione di pena di un anno e due mesi ad un uomo di nazionalità algerina, condannato per omicidio, sulla base di nuove perizie che avevano dimostrato un alterato profilo cromosomico, che poteva spingere alla violenza sotto specifiche circostanze esistenziali. Questo caso, subito diffuso anche a livello mediatico, è stato il primo giudizio in cui una attestata predisposizione genetica è stata riconosciuta quale attenuante meritevole di considerazione processuale.
Nel giudizio di primo grado, l’omicida era stato sottoposto a valutazione della capacità di intendere e volere ma le perizie non avevano dato esiti concordanti. Alcune concludevano per la totale incapacità di intendere e volere diagnosticando un disturbo psicotico di tipo delirante congiunto a un disturbo della personalità con tratti impulsivi, mentre altre per la parziale capacità di intendere e volere.
Il Giudice dell’udienza preliminare tuttavia aveva deciso per quest’ultima ipotesi ritenendo il soggetto solo parzialmente incapace di intendere e volere ma senza applicare la riduzione di pena prevista per tale infermità.
Con successivo grado di Appello veniva disposta una nuova perizia affidata a due neuro-scienziati, Giuseppe Sartori e Pietro Pietrini i quali fecero sottoporre il soggetto oltre che ad analisi psichiatriche, neuropsicologiche e neurologiche, anche ad un test genetico: emerse che nel DNA vi era la presenza di “polimorfismi” che in base ad alcuni studi internazionali[7], favorirebbero un significativo aumento del rischio di sviluppo di comportamento aggressivo-impulsivo, soprattutto in un contesto familiare di abuso. Ne derivava quindi che essere portatori dell’allele a bassa attività (low-profile) MAOA (MAOA-L), modulatore dei neurotrasmettitori mono-aminici come serotonina, dopamina, adrenalina e noradrenalina, poteva anche rendere il soggetto maggiormente incline a manifestare aggressività se provocato o escluso socialmente.
Dunque, la Corte d’Assise d’Appello, per l’importanza del deficit riscontrato con le nuovissime risultanze, frutto dell’indagine genetica, giudicò la seminfermità del soggetto e decise di applicare la massima riduzione del periodo di reclusione prevista dal Codice Penale[8].
La sentenza di Trieste, tuttavia, è stata messa in discussione, soprattutto in ambito internazionale, sotto il profilo dei dati genetici in essa contenuti[9].
Va detto che la ricerca genetica, per ora, conferma la tesi evoluzionista sostenendo che i geni sono fattori che predispongono alla manifestazione di particolari tratti e respinge invece l’argomentazione che siano il segno di un destino ineluttabile.
Emblematico fu il noto esperimento condotto da Federico II di Svevia per dimostrare l’esistenza di una lingua materna innata. Per comprendere quale lingua originaria sviluppasse il cervello, fece separare due neonati dalle loro madri ed allevare da balie che avrebbero dovuto soltanto nutrirli e fornirgli condizioni igieniche favorevoli senza mai rivolgergli la parola. Il risultato dell’esperimento fu che i bambini non cominciarono mai a parlare, si svilupparono molto lentamente e alla fine morirono in breve tempo.
Si è quindi recentemente sostenuto che: “non esistono geni della pigrizia, geni dell’intelligenza, geni della malinconia, geni della dipendenza o geni dell’egoismo. Esistono, invece, inclinazioni diverse, attitudini caratteristiche e sensibilità specifiche. Ma quello che alla fine verrà fuori dipende dalle condizioni di sviluppo incontrate di volta in volta[10]”.
Pietrini, già citato per il caso di Trieste, è fermamente convinto che lo studio dei polimorfismi genetici sta praticamente prendendo piede in tutte le branche della medicina e si comincia a comprendere quali fattori genetici possono renderci più vulnerabili a certe patologie o diversamente suscettibili a specifici trattamenti. Aggiunge che l’interesse per il gene MAOA in relazione al comportamento umano si è accentuato da quando si è riscontrato che nei maschi di una famiglia olandese con una pesantissima storia di comportamento antisociale, vi era un allele nullo per il gene MAOA. Poiché questo gene è presente sul cromosoma X che, come noto, è presente in singola copia nel maschio, coloro che avevano questa mutazione non producevano alcun enzima MAOA, praticamente l’equivalente umano di un knock-out animale (Bruner et al, Science, 262:578, 1993). Infatti, proprio come il topo transgenico knock-out per il gene MAOA, gli individui affetti erano estremamente aggressivi e violenti. Questa mutazione così grave è fortunatamente estremamente rara, ma ha aperto la strada allo studio del significato funzionale dei polimorfismi di questo gene.
In ogni caso, come già detto, non esiste una netta relazione causale tra avere una certa variante allelica e il mettere in atto un certo comportamento. Non c’è alcun determinismo.
Il cardine su cui si basa l’intero ordinamento penale nel nostro come pure in tutti gli altri Paesi democratici è il Libero Arbitrio, vale a dire la capacità di scegliere, la capacità di decidere di fare altrimenti. Va ricordato che nel nostro sistema giuridico, ai sensi dell’art.85 del codice penale, si legge: “nessuno può essere punito per un fatto previsto come reato se al momento in cui lo ha compiuto non era imputabile. E’ imputabile chi ha la capacità di intendere e volere”. Dunque, ogni soggetto che abbia coscienza del valore sociale delle proprie azioni e “che possa genericamente comprendere che la sua azione contrasta con le esigenze della vita in comune, nonché a determinarsi in modo autonomo, resistendo agli impulsi[11]”.
Pertanto, secondo l’art.42 c.p. “nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà”.
Il legislatore italiano ha previsto anche l’infermità di mente, disciplinata dagli artt. 88 e 89 c.p., che esclude o diminuisce la capacità di intendere o di volere. Cosicché, “qualsiasi condizione morbosa, anche se non ben definita clinicamente, può essere idonea a configurare il vizio di mente, sempre che però, la sua intensità sia tale da escludere o diminuire le capacità intellettive o volitive[12]”.
Su questa questione si sono confrontate due scuole di pensiero, da una parte coloro che ritenevano le malattie mentali in senso stretto, come le psicosi acute croniche o le insufficienze cerebrali, le uniche che potessero influire sulla capacità di intendere e volere e dall’altra coloro i quali sostenevano che nel concetto di infermità andassero incluse anche altre patologie come i disturbi della personalità, psicopatie, squilibri metabolici, epilessia, ecc.
La sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 25.01.2005 n.9163 diede un contributo orientativo stabilendo che: “i disturbi della personalità possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente ai fini degli artt. 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa; invece, non assumono rilevo ai fini della imputabilità le altre anomalie caratteriali o gli stati emotivi passionali, che non rivestono i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente”.
4. Lo sviluppo del neurodiritto
Oggi le perizie, quasi tutte legate alla capacità di intendere e di volere, si concentrano oltreché sugli aspetti genetici anche su altre aree neuro-scientifiche:
a) psichiatrica – indagine con test di personalità come ad esempio il Milton III e Comprehensive Assessment of At-Risk Mental States;
b) neuropsicologica – indagine con test per la valutazione delle capacità del ragionamento astratto come ad esempio il test delle matrici di Raven, test di memoria verbale e autobiografica, e test di comprensione linguistica astratta;
c) neurale – indagine per evidenziare eventuali alterazioni nella morfologia e nel funzionamento cerebrale avvalendosi della risonanza magnetica strutturale e funzionale;
d) genetico molecolare – indagine per verificare la presenza del genotipo per alcuni polimorfismi tipici dei comportamenti psicopatologici.
Di particolare interesse appare il caso di Cirimido (Como), dove la decisione del giudice si è avvalsa dei risultati neuro scientifici ed ha inciso sulla determinazione della pena.
In quella occasione, una giovane donna fu condannata a vent’anni di reclusione per aver ucciso ed occultato il cadavere della sorella e per aver tentato l’uccisione di entrambi i genitori.
Il Tribunale di Como ritenne l’omicida affetta da parziale incapacità di intendere e volere accogliendo la tesi della difesa (i periti di parte erano gli stessi del caso di Trieste) che dimostrava una predisposizione al comportamento aggressivo e violento[13].
Anche in questo caso i periti di parte sottoposero l’imputata a test di genetica molecolare e test neuropsicologici utilizzando alcune tecniche come: Implicit Association test (IAT), Timed Antagonist Response Alethiometer (TARA), Dissociative Experiences Scale (DES), Millon Clinical Multiaxial Inventory III (MCMI III), Minnesota Multiphasic Peronality Inventory (MMPI-2) e Psychopathic Personality Inventory-Revised (PPI-R).
L’esito dei test con i risultati di neuroimaging, applicando la morfometria basata sui voxel, decretò un “disturbo dissociativo dell’identità”, quello che in passato veniva anche chiamato “disturbo della personalità multipla”.
Un altro caso che può essere emblematico nell’applicazione delle neuroscienze al diritto è la recente vicenda giudiziaria che ha visto coinvolto un commercialista imputato di molestie sessuali ad una stagista. Il Tribunale di Cremona con sentenza del 19 luglio 2011 n.109 lo ritenne colpevole del reato ravvisando l’ipotesi di minore gravità di cui all’ultimo comma dell’art.609 bis c.p., riconoscendo le circostanze attenuanti generiche.
In questo caso, il difensore di parte civile, chiese che alla ragazza fosse riconosciuto il danno post-traumatico da stress e cioè “il segno e il residuato sul suo sviluppo psicologico – ricordando che all’epoca dei fatti questa era minorenne – e sulla sua vita di relazione lasciato dall’episodio di cui era stata vittima”.
I difensori dell’imputato, tuttavia, con ampie memorie contestarono il racconto e la credibilità della vittima e questo convinse il Giudice a disporre una perizia quale indagine integrativa.
L’ accertamento doveva far luce su due aspetti, da un lato verificare se la ragazza “avesse dentro di sé il ricordo di quanto aveva ripetutamente narrato e d’altro lato quella di verificare se tale evento fosse stato potenziale causa di un danno post-traumatico da stress, soddisfacendo in tal modo non solo un’esigenza di approfondimento ma anche, se del caso, quella di una più precisa valutazione della richiesta di risarcimento formulata dalla parte civile[14]”.
La perizia venne affidata al prof. Giuseppe Sartori, professore di Neuropsicologia Clinica presso l’Università di Padova e direttore della Scuola di Specializzazione in Neuropsicologia al quale il Giudice pose il seguente quesito:
“Dica il Perito, valutato preliminarmente il ricordo dell’evento come potenziale causa di disturbo clinicamente significativo, se la persona offesa, anche in considerazione della sua minore età e dello stato emotivo al momento del fatto, abbia subito un danno post-traumatico da stress o qualunque altro danno psichico riconducibile al reato denunciato. In questo caso ne chiarisca la natura, grado, durata e pemanenza nel tempo”.
La perizia, si svolse attraverso un colloquio con la persona offesa e suo padre, utilizzando i classici tests psico-diagnostici come il Millon Clinical Multiaxial Inventory III e il MMPI-A e, soprattutto, nell’effettuazione al computer dei blocchi di prove che compongono i già citati I.A.T. e T.A.R.A., innovativi test offerti del mondo delle neuroscienze cognitive, finalizzati a far emergere la memoria autobiografica di chi vi è sottoposto in relazione ad una determinata situazione. Lo I.A.T. ed il T.A.R.A. “sono procedure che, sulla base dei tempi di reazione, arrivano a verificare l’esistenza all’interno del soggetto di una informazione, in pratica di un ricordo quello specifico ricordo esiste come tale nella sua mente. Dalla rapidità ed accuratezza della risposta si ricava quale sia il ricordo ‘naturale’ che si è impresso”.
Così, in forza del fondamentale contributo delle procedure citate, il prof. Sartori poté concludere che “la ragazza dopo i fatti, è andata incontro a disturbi dell’adattamento e ad una sintomatologia ansiosa fortunatamente di grado abbastanza lieve e soggetta ad estinguersi nel giro di qualche mese e comunque, si può aggiungere, soggetta a divenire appena percepibile”.
E’ fondamentale rilevare che tests I.A.T. e T.A.R.A., nel passato, erano stati adottati anche nel procedimento per calunnia contro Annamaria Franzoni ed il suo consulente tecnico. In questo caso tuttavia, non furono accettati dalla Corte. Quali sono dunque le metodiche neuro scientifiche che certamente si possono adottare?
5. Consclusioni
Si è affermato che “la visione riduzionistica secondo cui tutto può essere spiegato da un’enorme tabella che quantifichi le gradazioni di funzionamento cerebrale nel loro complesso è ingenua. Il funzionamento cerebrale non è sano o malato “in sé”, ma in quanto riferito ad una produzione mentale che, a priori, giudichiamo patologica, o perché si discosta dalla norma sociale in cui viviamo o perché è fonte di sofferenza di inceppi di funzionamento o per più d’uno di questi motivi”[15].
Spesso “il lettore è portato a credere che, grazie ad una macchina assai complessa e sofisticata, con le neuro-immagini si possa ‘vedere’ direttamente quali porzioni del cervello sono attive e quali no mentre il soggetto esaminato pensa a qualcosa”[16].
Con la risonanza magnetica funzionale (fRMI) si misurano i cambiamenti emodinamici dopo un’aumentata attività neurale. Essa si basa sull’effetto delle variazioni di omogeneità del campo magnetico che derivano dalle variazioni di ossigenazione dell’emoglobina che si trova dentro a piccoli volumi di tessuto. Ora, si è detto che “le variazioni di flusso sanguigno hanno una latenza di almeno 5 secondi, cioè richiedono almeno 5 secondi per iniziare, mentre il pensiero umano, anche se non istantaneo, come credeva Cartesio, ha una latenza di sole poche decine di millesimi di secondo, com’è possibile che rapide variazioni nei contenuti del pensiero siano segnalate da molto più lente variazioni del circuito sanguigno cerebrale ? Questa domanda aspetta ancora una risposta convincente[17]”.
Ecco perché le neuro-immagini provocano molti dubbi e preoccupazioni. Ed in effetti alcuni studiosi si sono chiesti: imaging or imagining ?[18]
Il punto ancora non chiaro è se l’attivazione di una determinata area del cervello, segnalata con un colore, è veramente quella deputata ad una certa funzione o quella dove origina uno specifico deficit neurologico.
In ogni caso, il progresso tecnologico è inarrestabile e il supporto degli strumenti innovativi sopra citati sarà sempre più indispensabile per la diagnosi dei disturbi psichiatrici. A beneficiarne sarà certamente anche l’ambito processuale, in quanto luogo dove, in poco tempo e a posteriori, si valuta e giudica il comportamento umano e dove spesso gli esperti, anziché servirsi delle regole razionalmente valide, elaborano giudizi sulla base di strategie cognitive più semplici, cosiddette “euristiche”[19].
Si aggiunga anche “l’impossibilità di individuare confini certi tra i vari disturbi e soddisfacenti correlati eziopatogenetici, a monte, e terapeutici, a valle, dei disturbi stessi […] la mancanza di confini certi, ha portato alla vera e propria esplosione delle cosiddette ‘comorbilità’: si è fatto cioè ricorso all’ipotesi della compresenza di più disturbi, anche quattro o cinque, per connotare sintomatologie non particolarmente complesse. Così, ad esempio, un soggetto piuttosto ansioso, con spunti fobici e l’umore triste può venire diagnosticato come affetto da Disturbo d’Ansia Generalizzata, Fobie Semplici e Disturbo Depressivo, Maggiore o Distimico a seconda di gravità e durata. Si è venuta così a creare una grande indeterminatezza dei fenomeni clinici nell’ambito di una nosografia caratterizzata da suddivisioni apparentemente meticolose ma in realtà non molto efficaci”[20].
Questo è confermato anche da uno dei padri del DSM-IV il quale, in un recentissimo lavoro ha dichiarato che “i nuovi potenti strumenti della biologia molecolare, della genetica, e del neuroimaging non si sono ancora trasformati in test di laboratorio per la demenza o la depressione o la schizofrenia o il Disturbo Bipolare o il Disturbo Ossessivo-Compulsivo o per altri disturbi mentali. L’ipotesi per cui un gene o un neurotrasmettitore o un circuito avrebbero potuto spiegare i diversi disturbi mentali si è rivelata ingenua e illusoria. Ancora oggi non abbiamo un solo test di laboratorio in psichiatria”[21].
Per la verità, almeno un test di laboratorio è stato elaborato; riguarda i disordini dell’umore (Depressione Maggiore e Bipolare), diagnosticate attraverso l’ausilio di reti neurali artificiali e la valutazione di alcuni acidi grassi della membrana piastrinica[22].
E’ facile perciò prevedere che in un futuro non tanto lontano, non sarà più tollerato il fatto che molte decisioni dei Tribunali sulla capacità di intendere e di volere, siano adottate soltanto sulla base di valutazioni soggettive facendo affidamento sulla intuizione diagnostica degli psichiatri che tradizionalmente si avvalgono unicamente di test psicologici e del colloquio clinico.
1 Dipartimento delle Scienze Giuridiche e Sociali, Università L.U.de.S., Lugano, Svizzera
2 Istituto di Ricerca “P. Sotgiu”, L.U.de.S. University, Lugano, Svizzera
3Facoltà di Scienze Umane -Università L.U.de.S., Lugano, Svizzera
Note
[1] Paolo Legrenzi-Carlo Umiltà, Neuro-mania, il Mulino, 2009
[2] Eugenio Picozza, Neurodiritto, Giappichelli, 2011, pag.19 peraltro, l’autore auspica “che il neurodiritto sia inserito nell’ambito della filosofia del diritto come teoria postmoderna in grado di fornire una descrizione completa di fenomeni giuridici “dalla parte dell’uomo e della vita senza cadere nel nichilismo nel formalismo ovvero in una visione comunque settoriale come l’analisi economica del diritto”.
[3] Harlow, J.M., Recovery from the passage of an iron bar through the head, in Pubblication of the Massachusetts Medical Society, 2, 1868
[4] Damasio Antonio, l’Errore di Cartesio, Adelphi Edizioni, 1995 pagg.49-50
[5] Amedeo Santosuosso – Barbara Bottalico, Le neuroscienze e il diritto, Pavia Collegio Ghislieri, 2009 pag.25
[6] Eugenio Picozza, Neurodiritto, cit pag.64
[7] Caspi A., McClay J., Moffitt T.E.., Mill J., Martin J., Craig I.W., et al. 2002, Role of genotype in the cycle of violence in maltreated children, “Science”, 297, pagg. 851-854
[8] A. Lavazza – L. Sammicheli, il delitto del cervello, Codice Edizioni, 2012, pag.5
[9] Forzano F., Borry P.,Cambon-Thomsen A., Hodgson S.V., Tibben A., de Vries P., van El C., Cornel M., 2010, Italian appeal court: a genetic predisposition to commit murder ?, European Journal of Human Genetics, 18(5), pagg. 519-521
[10] Gerald Huther, il cervello compassionevole, Lit. Edizioni, 2013, pag.9
[11] Francesco Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, 1987, pag.519
[12] Ferrando Mantovani, Diritto Penale, parte generale VIII ediz., Padova, 2013 pag.685
[13] Tribunale di Como, ordinanza del GIP di applicazione della misura di sicurezza provvisoria del ricovero in casa di cura e custodia, 20.05.2011;
[14] Così scrive il Giudice per le indagini Preliminari dott. Guido Salvini nella sentenza 109/11
[15] Paola Rocca e Filippo Bogetto, Fotografare il cervello, neuroimaging e malattie mentali, Bollati Boringhieri, 2010 pag.11;
[16] Paolo Legrenzi-Carlo Umiltà, neuro-mania, cit.
[17] Paolo Legrenzi-Carlo Umiltà, neuro-mania, cit.
[18] Illes J, Racine E., Imaging or imagining ? A neuroethics challenge informed by genetics, American Journal of Bioethics, 5, 2005, pagg..5-18
[19] Matteo Motterlini e Vincenzo Crupi, decisioni mediche, Raffaello Cortina Editore, 2005, pag.14
[20] Paola Rocca e Filippo Bogetto, Fotografare il cervello neuroimaging e malattie mentali, Bollati Boringhieri, 2010 pagg.9-10;
[21] Allen Frances, Primo, non curare chi è normale, Bollati Boringhieri, 2013, pagg.30-31
[22] Massimo Cocchi e Lucio Tonello, Depressione Maggiore e Patologia Cardiovascolare Ischemica, CLUEB, 2008
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(di A. Carta, L. Abeille , A. Bozzi , , M. D’Amore , A. De Filippo, M. Chiovini)
L’interrogatorio è una realtà a più fattori che necessita di un’analisi attenta ed approfondita, trattandosi di un momento piuttosto delicato dal punto di vista giuridico, criminologico e psicologico, che comprende diverse metodologie di acquisizione della testimonianza.
Per riuscire a meglio comprendere il fenomeno, è necessario calarsi nella realtà in oggetto con una visione più ampia possibile, non tralasciando, tra l’altro, l’annosa questione dei falsi ricordi generati dalle tecniche investigative.
1. L’interrogatorio dell’indagato/imputato
Il codice di procedura penale onnicomprende un minuzioso plesso di norme che disciplinano l’interrogatorio della persona sottoposta ad indagini, il quale – giova rammentarlo sin da subito – viene equiparato all’imputato per quanto concerne i diritti di difesa, diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento ai sensi della nostra Carta Costituzionale (art.24).
L’art. 61, comma 1, del c.p.p., infatti, dispone che “i diritti e le garanzie dell’imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari”, anche se tale equiparazione non può ritenersi totale in quanto la fase delle indagini è segreta, mentre le successive dell’udienza preliminare e del giudizio si svolgono in contradditorio.
La qualifica di imputato in luogo di indagato avviene con la richiesta di rinvio a giudizio o, nei cd “riti alternativi” (patteggiamento, giudizio immediato, giudizio direttissimo, ecc.), essa si acquista nel momento in cui si instaura il singolo rito.
Esaurita questa preliminare digressione con riguardo all’equiparazione tra imputato ed indagato sotto il profilo del diritto alla difesa, e scegliendo di approfondire il tema dal punto di vista dell’indagato, è d’uopo procedere alla disamina dell’atto che annovera i principali diritti spettanti a tale soggetto e che fanno parte di quello che viene comunemente definito “diritto di autodifesa”: l’interrogatorio.
Le regole generali dell’interrogatorio si rinvengono nell’art. 64 c.p.p., dal quale si evince un primo dato di stringente rilievo: dall’interrogatorio si potranno ottenere dichiarazioni soltanto se e nei limiti in cui l’indagato decida liberamente di renderle. Un tanto rimarca ictu oculi la libera scelta accordata al soggetto sottoposto ad indagini di rendere o meno delle dichiarazioni, sulla scorta del principio del nemo tenetur se detegere che permea il nostro ordinamento, ai sensi del quale risulterebbe un atto abnorme richiedere ad un soggetto di “autoincolparsi”.
Tale principio, quello della facoltà di non rispondere, è suffragato da un costante orientamento giurisprudenziale, secondo il quale “il silenzio, garantito all’imputato come oggetto di un suo diritto processuale, non può essere utilizzato quale tacita ammissione di colpevolezza”.
E’ altresì vero, tuttavia, che ciò non può comportare una limitazione legale della sfera del libero convincimento del giudice, sicché la convinzione di reità potrà legittimamente basarsi sulla valorizzazione in senso probatorio di idonei elementi in ordine ai quali il silenzio dell’indagato viene ad assumere valore di mero riscontro obbiettivo.
Nondimeno, la negazione o il mancato chiarimento da parte dell’indagato di circostanze valutabili a suo carico nonché la menzogna o il semplice silenzio su queste ultime possono fornire al giudice argomenti di prova solo con carattere residuale e complementare ed in presenza di univoci elementi probatori di accusa, non potendo determinare alcun sovvertimento dell’onere probatorio. E’ opportuno rammentare, infatti, che è onere del pubblico ministero che esercita l’azione penale ricercare elementi probatori e carico (e a discarico) del soggetto indagato o imputato. L’esercizio della facoltà di non rispondere non è soggetto ad alcuna formula sacramentale né a limiti temporali: non appena l’interessato abbia manifestato la volontà di avvalersene, ciò è condizione idonea e sufficiente ad esaurire ogni altra formalità connessa e conseguente.
Proseguendo con le regole generali dell’interrogatorio cristallizzate nell’art. 64 c.p.p., nel primo comma dell’articolo testé richiamato il legislatore statuisce che la persona sottoposta alle indagini, anche se in stato di custodia cautelare o se detenuta per altra causa, interviene libera all’interrogatorio, salve le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenze.
Non possono essere utilizzati – ex art. 64 comma II c.p.p. -, neppure con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti.
Per quanto concerne gli avvisi che è necessario dare alla persona da interrogare, la norma (prevista a pena di inutilizzabilità) dispone che prima che abbia inizio l’interrogatorio, la persona deve essere avvertita che:
a) le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti;
b) salvo quanto disposto dall’articolo 66, comma 1, che impone al soggetto indagato o imputato di dichiarare le proprie generalità, egli ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso;
c) se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone, salve le incompatibilità previste dall’articolo 197 e le garanzie di cui all’articolo 197-bis.
L’inosservanza delle disposizioni di cui al comma 3, lettere a) e b), rende inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona interrogata. In mancanza dell’avvertimento di cui al comma 3, lettera c), le dichiarazioni eventualmente rese dalla persona interrogata su fatti che concernono la responsabilità di altri non sono utilizzabili nei loro confronti e la persona interrogata non potrà assumere, in ordine a detti fatti, l’ufficio di testimone.
L’art. 65 c.p.p., invece, enumera le regole dell’interrogatorio “sul merito”, cioè sui fatti addebitati. Le modalità dell’interrogatorio di merito, specificate nell’art. 65 c.p.p., non sono tassative, ma vanno adattate al concreto espletamento dell’atto; sulla scorta di tale articolo, pertanto, si evince quanto segue.
In primo luogo, l’autorità giudiziaria contesta alla persona sottoposta alle indagini in forma chiara e precisa il fatto che le è attribuito, le rende noti gli elementi di prova esistenti contro di lei e, se non può derivarne pregiudizio per le indagini, gliene comunica le fonti.
Successivamente, invita la persona ad esporre quanto ritiene utile per la sua difesa e le pone direttamente domande. Anche tale previsione normativa va interpretata non come obbligo, ma come facoltà discrezionale del giudice di procedere a diretto interrogatorio ponendo domande.
Se la persona rifiuta di rispondere, ne è fatta menzione nel verbale. Nel verbale è fatta anche menzione, quando occorre, dei connotati fisici e di eventuali segni particolari della persona.
L’ipotesi più frequente è che i difensori esortino indagati ed imputati a tacere e non rendere dichiarazioni, piuttosto che rilasciarne di false: infatti, qualora la falsità venisse accertata, ciò potrebbe costituire prova che l’indagato non è credibile e le sue dichiarazioni sarebbero usate come elemento contro di lui.
E’ importante precisare che l’indagato non ha un obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità e, conseguentemente, qualora rispondesse dicendo il falso non si configurerebbero i reati di falsa testimonianza (art. 372 c.p.) o di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis c.p.), fattispecie di reato appannaggio esclusivo del testimone.
In relazione ad ulteriori reati che egli possa perpetrare rendendo dichiarazioni mendaci, inoltre, egli è protetto dalla causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, c.p. Tale norma, infatti, stabilisce una esimente in favore di colui che abbia commesso determinati delitti contro l’amministrazione della Giustizia per esservi stato costretto dalla necessità di salvarsi da un grave e ineliminabile pregiudizio nella libertà e nell’onore.
Vi sono, per concludere, alcuni casi in cui l’indagato, dichiarando il falso, commette un reato:
a) l’indagato è punibile quando compie “simulazione di reato”, cioè afferma falsamente che è avvenuto un reato, che nessuno ha commesso (art. 367 c.p.)
b) l’indagato è punibile altresì quando calunnia un’altra persona, e cioè incolpa di un reato taluno che egli sa essere innocente (art. 368 c.p.). In tal caso, tuttavia, si pone il problema del contemperamento tra l’incriminazione per calunnia e la necessità di esercitare il diritto costituzionale di difesa. Tale antinomia è risolta dalla giurisprudenza della Suprema Corte, ai sensi del quale “è scriminata dall’esercizio del diritto di difesa la condotta calunniosa dell’imputato quando questi rivolge ai suoi accusatori rilievi non determinati e circostanziati e comunque non esorbitanti dall’economia difensiva, vale a dire strettamente correlati all’esigenza di difendersi dall’imputazione.”
Dalle predette ipotesi si può ricavare un principio comune: l’indagato per difendersi può dire il falso, ma non può arrivare fino al punto di sviare la giustizia penale, in quanto lo sviamento della Giustizia non è scriminato quando avviene abusando del diritto di difesa.
2. L’interrogatorio nelle indagini preliminari: dalla forma classica alle tecniche psico-criminologiche
L’interrogatorio dei soggetti coinvolti in un evento delittuoso costituisce un importante punto di partenza da cui il procedimento giudiziario, precisamente la fase delle indagini preliminari, deve evolversi. Gli investigatori che conducono le domande (Pubblico Ministero oppure, su mandato di quest’ultimo, polizia giudiziaria) mirano a raccogliere le informazioni, il più possibile attendibili e accurate, da parte della vittima se sopravvissuta e dei testimoni presenti durante il fatto. Ulteriore obiettivo, ma non secondario, consiste nel valutare il grado di sincerità e di colpevolezza della persona sospettata, mediante un’attenta analisi delle componenti verbali e non verbali che fornisce in risposta ai quesiti. Naturalmente, doveroso è precisare che le accuse e le testimonianze così ottenute dovranno sempre essere supportate da successive, approfondite indagini e da prove concrete. Al fine di realizzare correttamente un interrogatorio, inoltre, gli inquirenti possono richiedere l’aiuto di periti esperti, quali psicologi e criminologi. Figura professionale che diviene una presenza fondamentale se l’esame è rivolto ad un indagato o ad una vittima minorenne.
Nella presente sede, l’attenzione sarà indirizzata principalmente alle tecniche e alle modalità investigative che le Autorità possono attuare nei confronti del presunto colpevole.
Occorre, innanzitutto, distinguere tra interrogatorio standard e metodologie a stadi. Il primo rappresenta la regola basica utilizzata dalla polizia per comprendere come si è verificato qualsiasi tipo di reato e prevede una ricostruzione libera del fatto ad opera del soggetto interrogato, seguita da alcune domande specifiche. Tale sistema appare più rapido e diretto, quindi pone in secondo piano l’aspetto relazionale; è solitamente impiegato nei casi di atti illeciti meno gravi quali, ad esempio, furto e rapina non armata. Le tecniche a fasi, denominate Interviste (Cavedon, Calzolari, 2005), al contrario richiedono alla base un profondo addestramento teorico e pratico oltre che un maggior tempo di conduzione; vengono, infatti, realizzate da operatori giudiziari (P.M., Giudice,…) accanto a psicologi specializzati nell’ambito forense/investigativo. Ricorrenti nei crimini cause di conseguenze psicologiche traumatiche (ad esempio, rapina a mano armata, aggressione fisica, violenza sessuale, omicidio), si basano sul principio secondo il quale, gli elementi fondamentali per giungere ad una ricostruzione attendibile della vicenda sono un’empatia sviluppata del perito, un preciso ordine di somministrazione delle domande e l’abilità a porle senza introdurre alcuna suggestione (che l’interrogante spesso compie non intenzionalmente).
Come sottolinea Miconi (2009), infatti, colui che guida un interrogatorio può, inconsapevolmente, assumere determinati comportamenti non verbali o suggerire informazioni nei quesiti posti che, se non controllati e ridotti al minimo, rischiano di influenzare il soggetto e indurlo a riferire particolari distorti o probabilmente inesistenti. L’autore aggiunge, inoltre, che per condurre un colloquio giudiziario, non bastano l’intuito e l’esperienza, oltre a queste potenzialità, comunque importanti, è necessario apprendere ad utilizzare alcune tecniche.
Soffermandoci su quest’ultime, le più conosciute risultano: l’Intervista Cognitiva elaborata soprattutto per interrogati adulti e la Step-Wise Interview adatta a soggetti minori anche molto giovani. Procedure applicabili nei confronti dell’indagato, per contestazione delle accuse, difesa, ottenere confessioni, scoprire contraddizioni o approfondire le informazioni ottenute.
In dettaglio, la caratteristica fondamentale che rende queste tecniche investigative molto efficaci è la presenza di tappe e di strategie di recupero guidato; ma non solo, anche il genere di quesiti (in maggioranza aperti) contribuisce a ottenere un resoconto accurato del reato, privo di ambiguità e incertezze. L’Intervista Cognitiva, ideata da Geiselman e Fisher all’inizio degli anni Ottanta, si suddivide in cinque fasi che vanno dal momento primario di instaurare un rapporto fondato sulla fiducia, sul rispetto reciproco e sulla comunicazione ottimale, al racconto libero, spontaneo da parte dell’intervistato, ad una serie di domande (tra le quali, devono essere ridotte al minimo quelle chiuse e a scelta multipla: le più suggestive), al secondo racconto di ricapitolazione ed, infine, alla chiusura dell’interrogatorio e della relazione. La particolarità che qui troviamo, consiste nel fatto che il perito guida la deposizione del soggetto mediante varie strategie cognitive: le più frequenti sono, ad esempio, la ricostruzione del contesto e delle emozioni vissute nel momento criminoso e la rievocazione dell’evento in ordine diverso, aventi lo scopo di comprendere se la confessione dell’imputato è veritiera (per cui, egli sarà in grado di riportare lo stesso fatto da più prospettive mantenendosi costantemente coerente, oltre che di riferire numerosi elementi contestuali ed emotivi) o pecca in contraddizioni (Cavedon, Calzolari, 2005).
La tecnica, introdotta dal Ministero di Grazia e Giustizia della Gran Bretagna nel 1992 ed oggi notevolmente diffusa tra le pratiche giudiziarie e psicologiche minorili all’interno del nostro Paese, è la Step-Wise Interview. Avviata come mezzo per interrogare bambini vittime di abuso sessuale, è stata poi adottata anche per indagare minorenni sospetti autori di delitti. Quest’ultima procedura include dieci fasi audio e video registrate, condotte da un giudice con la collaborazione di uno psicologo competente nella disciplina: profonda importanza è attribuita (qui maggiormente, data la fascia d’età) all’atteggiamento accogliente e comprensivo dei periti e alla formulazione delle domande, nelle quali l’interrogante non deve rischiare di anticipare informazioni attese nelle risposte che potrebbero manipolare il minore già, peraltro, vulnerabile e probabilmente traumatizzato. Una prima parte della Step-Wise Interview, inoltre, è dedicata alla preparazione del giovane imputato all’interrogatorio sia dal punto di vista mentale sia da quello linguistico, mediante esercizi o giochi correlati all’età; si prosegue poi con l’introduzione graduale dell’argomento e le domande, ricorrendo, se necessario, a specifici test di valutazione.
Oltre alle tecniche sopra illustrate, sono diffusi altri metodi di investigazione a cui gli inquirenti possono ricorrere a seconda del caso in esame. Per citarne solo alcuni, l’Intervista Contestualizzata attuata frequentemente in anni più recenti, la quale si realizza direttamente sul luogo del delitto; l’Intervista Biografica o Narrativa, impiegata per interrogare i familiari di individui scomparsi o deceduti in circostanze misteriose allo scopo di ricostruire il loro contesto sociale e individuare dei possibili sospetti. Tutte queste metodologie più sofisticate risultano, quindi, efficienti per ottenere una testimonianza attendibile e accurata; peraltro, le domande poco suggestive e le modalità di recupero su cui si fondano, consentono all’investigatore addestrato di scoprire se dietro alle risposte del soggetto, può celarsi un tentativo di depistare le indagini. Tale conclusione è supportata da numerose ricerche condotte tra gli anni ’80 e ’90 del 1900, nel corso delle quali, applicando le procedure sopra citate, si è ottenuto un valore di accuratezza delle informazioni del 90% con un rischio di manipolazione inconsapevole scarso o nullo. In un esperimento che aveva come oggetto la deposizione di adulti e minori coinvolti in una rapina, Gudjonsson (1984) ha dimostrato come domande chiuse e a scelta multipla, ad esempio “Di che colore era la borsa della donna, marrone o nera?”, possono confondere l’interrogato e indurlo a indicare una delle due opzioni anche quando la borsa era di un altro colore. Alla stessa conclusione è giunta, in seguito, Loftus (1993) in uno studio molto noto: l’autrice ha suggerito come il minore può facilmente riportare fatti o particolari non realmente presenti nella situazione delittuosa, se intervistato mediante domande specifiche (Mazzoni, 2008). Da tali approfondimenti, quindi, si evince l’importanza di un interrogatorio che privilegia l’ambiente accogliente, il racconto libero e l’intervista aperta. Attualmente, poliziotti, operatori giudiziari e psicologici si stanno muovendo, sempre più, in una direzione coerente con le nuove scoperte, seguendo training di apprendimento e realizzando una collaborazione reciproca.
3. Ipnosi ed investigazione: tema dei falsi ricordi
Il tema dei falsi ricordi, specialmente in ambito legale, riveste un ruolo di primario interesse per le implicazioni pratiche e le potenziali ricadute sull’esito del procedimento penale.
Una delle tecniche più controverse, il cui utilizzo ha destato parecchi dibattiti tecnici, è certamente l’approccio legato alla possibilità di svolgere un interrogatorio o acquisire prove tramite l’ipnosi.
Bartlett (1990) ha dimostrato che è possibile instillare falsi ricordi nei pazienti, attraverso un meccanismo relativamente molto semplice: sarebbe sufficiente continuare a chiedere maggiori dettagli alla persona per farla sentire obbligata a completare i ricordi e spingerla a creare nuovi dettagli. Una volta terminato questo momento di ricordo, l’individuo può tranquillamente dimenticare di aver aggiunto particolari ed integrare ricordi reali e falsi in un’unica storia.
Questo processo potrebbe risultare addirittura più semplice laddove utilizzassimo uno stato mentale modificato e maggiormente ricettivo come quello generato dall’ipnosi. Durante una seduta ipnotica, tra l’altro, il fattore suggestivo potrebbe creare falsi ricordi indotti dall’ipnotista che fornirebbe dettagli più o meno involontari durante la sua verbalizzazione. E’ quindi necessario che l’operatore sia cauto e preparato a tenere una seduta di questo genere, poiché la mescolanza di ricordi, emozioni e confusioni è molto probabile e potrebbe addirittura essere nociva per la persona.
Nel 2009 Graham ha scritto un interessante articolo sull’ipnosi in chiave investigativa e sul futuro di questa metodica in ambito giuridico. L’autore sostiene che dal 1970-1980 l’ipnosi ha avuto un gran calo di popolarità come tecnica investigativa, dovuta principalmente all’idea che sia una situazione mentale di suggestione piuttosto che uno strumento utile ad acquisire prove. Infatti nella maggior parte degli stati americani vige la regola di esclusione per le testimonianze rese in ipnosi. Per decenni si è fatto molto affidamento su studi che hanno dimostrato come “le procedure ipnotiche non migliorano l’accuratezza delle testimonianze richiamate in trance, rispetto a quelle richiamate in non-ipnosi”. Ederlyi (1994) in una review della letteratura ha invece sottolineato come le tecniche ipnotiche possano essere utili unicamente per situazioni dove vi siano ricordi legati alle scene di crimine, con un alto impatto sensoriale. Va, comunque, evidenziata la probabilità di un aumento di falsi positivi, cioè di informazioni inesatte richiamate alla memoria.
La regola che ne deriva sarebbe però eccessivamente inclusiva e non corrispondente alla realtà descritta in letteratura. Graham afferma, infatti, che si debba ricorre primariamente, laddove disponibili, ad interviste più oggettive e strutturate (come l’intervista cognitiva) e lasciare come “ultima spiaggia” l’utilizzo della trance. Tuttavia, bisogna ammettere che conosciamo davvero poco delle procedure che si possono impiegare nel colloquio ipnotico e che molte di queste possono tornarci utili e diventare affidabili.
Un significativa (Wagstaff et al., 2008) va proprio in questa direzione: avulse dal contesto di ipnosi, tecniche brevi come la chiusura degli occhi e il controllo della respirazione migliorano notevolmente la memoria. L’aumento della precisione mnemonica è, dunque, foriero di miglioramenti qualitativi nei ricordi, direzione lontana dai falsi positivi. In quest’ottica, i tribunali dovrebbero accettare le testimonianze rese con queste metodologie perché maggiormente accurate e precise.
Un interessantissimo studio (Peiffer et al, 2000) ha analizzato invece gli stili di personalità e la possibilità di essere suggestionati a produrre falsi ricordi in ipnosi. L’analisi dei dati è chiara: il carattere “acquiescenza” correla positivamente con la produzione di falsi ricordi in ipnosi. Sarebbe necessario, al netto delle analisi psicologiche, studiare più a fondo la correlazione tra ipnosi, personalità e falsi ricordi, per verificare se è possibile riammettere una tecnica rimarchevole come l’ipnosi tra il novero di quelle utilizzabili nelle investigazioni
Bibliografia e giurisprudenza
Bartlett F. (1990). La memoria: studio di psicologia sperimentale e sociale, Franco Angeli, Milano
Cass Pen. Sez. I, 26 ottobre 2011 – 23 gennaio 2012, n. 2653, in Giorgio Lattanzi (2012), codice di procedura penale annotato con la giurisprudenza, Giuffrè, Milano.
Cass. Pen. Sez. II, 21 aprile 2010 – 14 giugno 2010, n. 22651, in Giorgio Lattanzi (2012), codice di procedura penale annotato con la giurisprudenza, Giuffrè, Milano.
Cass. Pen. Sez. V, 14 febbraio 2006 – 6 aprile 2006, n. 12182, in Giorgio Lattanzi (2012), codice di procedura penale annotato con la giurisprudenza, Giuffrè, Milano.
Cavedon A., Calzolari M.G. (2005). Come si esamina un testimone. L’intervista cognitiva e l’intervista strutturata, Giuffrè Editore, Milano.
Erdelyi, M. W. (1994). The empty set of hypermnesia. International Journal of Clinical and Experimental Hypnosis, 42, 379–390.
Graham F. W. (2009). Is there a Future for Investigative Hypnosis?, J. Investig. Psych. Offender Profi l. 6: 43–57
Gulotta G. (2011). Compendio di psicologia giuridico-forense, criminale e investigativo, Giuffrè Editore, Milano.
Gulotta G (1987). Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Giuffrè Editore, Milano.
Gulotta G. (2008), Breviario di psicologia investigativa, Giuffrè Editore, Milano.
Gulotta G., Cutica I. (2009), Guida alla perizia in tema di abuso sessuale e alla sua critica, Giuffrè Editore, Milano.
Mazzoni G. (2003), Si può credere a un testimone?, Il Mulino, Bologna.
Miconi A. (2009), La testimonianza nel procedimento penale. Profili giuridici, psicologici e operativi, G. Giappichelli Editore, Torino.
Peiffer L., Trull T. (2000), Predictors of Suggestibility and False-Memory Production inYoung Adult Women, Journal of Personality assessment, , 74(3), 384–399
Wagstaff, G. F., Cole, J., Wheatcroft, J., Anderton, A., & Madden, H. (2008), Reducing and reversing pseudomemories with hypnosis. Contemporary Hypnosis, 25, 178–191.
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