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sanzione

(di Giulia Piva)

Lo scorso 2 settembre 2015 è ufficialmente entrato in vigore il d.lgs. 128/2015 che – in attuazione della delega fiscale ex l. 23/2014 – ha profondamente riformato ed innovato la disciplina dell’abuso del diritto.

In particolare, l’obiettivo perseguito dal legislatore delegato è stato quello di colmare i vuoti normativi permeanti la materia dell’abuso/elusione fiscale e – conseguentemente – ricostruire una disciplina esaustiva ed idonea ad individuare “senza ambiguità i connotati dell’abuso e le modalità dell’uso distorto degli strumenti negoziali”.

Invero, la preesistente normativa – essenzialmente contenuta nell’art. 37-bis del Dpr 600/1973 ed, in minima parte, nell’art. 21-bis del Dpr 131/1986 – era estremamente evanescente, di creazione strettamente giurisprudenziale e – pertanto – assolutamente inidonea ad identificare in modo chiaro e preciso le condotte abusive fiscalmente illecite.

Il recente decreto ha così introdotto nello Statuto del contribuente (l. 212/2000) l’art. 10-bis, che abrogando il predetto art. 37-bis contenuto nel Dpr 600/1973 ha finalmente fornito gli strumenti utili a delineare i confini dell’abuso/elusione fiscale, introducendo – per la prima volta – una nozione generale di “abuso del diritto”, in grado di operare per tutti i tipi di imposte fatti salvi i diritti doganali per i quali restano in vigore le preesistenti normative di riferimento.

Sotto questo profilo, è tuttavia opportuno evidenziare che – a differenza dell’esplicita abrogazione intervenuta per l’art. 37-bis – il recente d.lgs. 128/2015 nulla ha disposto in merito al sopra evidenziato art. 21-bis, lasciando pertanto aperte le porte a possibili contrasti interpretativi che, certamente, si sarebbero potuti e/o dovuti evitare.

Ad ogni modo, fatto salvo l’“empasse” appena evidenziato, bisogna riconoscere che il legislatore delegato ha indubbiamente fornito maggior certezza al quadro normativo della materia, spingendosi – in concreto – molto al di là della mera specificazione della nozione di abuso del diritto, oggi identificata in “una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.

Difatti, da una parte, la recente introduzione dell’art. 10-bis – rubricato “disciplina dell’abuso o elusione fiscale” – ha determinato la parificazione dei concetti di “abuso” ed “elusione” fiscale, unificandoli sotto la medesima nozione onde evitare la delimitazione della condotta antielusiva a mere fattispecie casistiche di creazione meramente giurisprudenziale.

D’altra parte, l’intervenuto decreto ha contemporaneamente riconosciuto in capo al contribuente la libertà di perseguire un risparmio d‘imposta – il cui limite invalicabile è, unicamente costituito dalla realizzazione di indebiti vantaggi fiscali -.

L’aspetto ancor più innovativo, tuttavia, è indubbiamente rappresentato dall’espressa dichiarazione di irrilevanza penale delle condotte elusive contenuta nello stesso art. 10-bis, ove si afferma che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”.

Sul punto è intervenuta anche la Suprema Corte che – nella recente sentenza 40272/2015 – ha sottolineato come ad oggi eventuali contestazioni per condotte di elusione fiscale e/o di abuso del diritto non possano determinare in alcun modo incriminazioni tributarie – residuando, pertanto, l’intervento penale unicamente per lesioni frontali alla disciplina contenuta nel D.Lvo 74/2000 -.

Alla luce della specificazione della condotta ex art. 10 bis, la Corte di legittimità ha opportunamente escluso la mutua sovrapposizione tra la condotta elusiva/abusiva e quella configurante ipotesi di reati tributari o di simulazione, ovvero, di frodi o evasioni IVA – fattispecie quest’ultime che dovranno pertanto essere perseguite attraverso gli specifici strumenti sanzionatori già a disposizione dell’ordinamento vigente ai sensi del D.Lvo 74/2000 -.

Ad ogni modo, l’intento del recente decreto 128/2015 non è stato quello di fornire scorciatoie o di escludere qualsivoglia reazione sanzionatoria per i contribuenti responsabili di condotte fiscalmente abusive – bensì quello di optare per una (residuale) sanzionabilità in via amministrativa delle indicate condotte elusive -.

Al riguardo, la stessa Suprema Corte ha evidenziato come un’eventuale esclusione tout court di ogni genere di risposta sanzionatoria rispetto alle condotte antielusive risulterebbe certamente inidonea a fronteggiare l’esigenza di “prevedere un deterrente rispetto ad operazioni che, come quelle elusive, realizzano risultati comunque “indesiderati” dal punto di vista dell’ordinamento fiscale”.

Invero, appare evidente che – come recentemente avvenuto per il d.lgs. 158/2015 in materia tributaria – la finalità perseguita dal legislatore sia stata, in particolare, quella di tracciare i confini tra le condotte maggiormente dannose e quelle ritenute meno pregiudizievoli, ovvero, di operare una netta differenziazione tra le condotte (e le rispettive conseguenze sanzionatorie) di elusione e/o di abuso del diritto da quelle di evasione fiscale – anche al fine di una più efficace lotta alle evasioni e frodi IVA -.

Tuttavia, da un’accurata analisi della novellata disciplina anti/abusiva, emerge chiaramente come l’intervenuto decreto legislativo 128/2015 abbia introdotto principi e disposizioni normative che – in realtà – avrebbero già dovuto essere intrinseci ed immanenti all’ordinamento tributario stesso.

Il legislatore avrebbe, da tempo, dovuto seguire le indicazioni fornite dalla giurisprudenza in materia antielusiva – anticipando, così, le conclusioni di cui all’intervenuto d.lgs. 128/2015 (e successivamente confermate dalla stessa Corte di cassazione nella recentissima sentenza n. 40272 del 2015), ovvero, l’introduzione di una causa di non punibilità in sede penale per le condotte di elusione/abuso del diritto fiscalmente rilevanti -.

Difatti, la Suprema Corte, già nella famosa sentenza n. 43809 del 24 ottobre 2014, nel caso c.d. “Dolce&Gabbana”, aveva decretato l’irrilevanza penale della condotta di abuso del diritto, assolvendo con la formula piena del “perché il fatto non sussiste” i due celebri stilisti dal delitto di evasione fiscale realizzato mediante un’operazione di estero-vestizione, ovvero, di elusione fiscale.

Da tempo, infatti, si lamentava la necessità di riempire la nozione di “abuso del diritto” con contenuti puntuali per renderla idonea sia a rappresentare una valida alternativa alla fattispecie di evasione fiscale, che – conseguentemente – a costituire un indice di riferimento per l’eventuale configurazione (o meno) di condotte penalmente rilevanti.

Ne consegue che, se il legislatore fosse stato più attento e pronto a colmare i vuoti normativi in materia – disciplinando in modo chiaro gli elementi e pilastri fondamentali della normativa antiabusiva – si sarebbero certamente evitati numerosi e contrastanti interventi giurisprudenziali che, in numerosi casi – come in quello c.d. “Dolce&Gabbana” – hanno comportato reali calvari giudiziari per i contribuenti.

Infine, un ulteriore aspetto rilevante dell’intervenuto d.lgs. 128/2015 è sicuramente rappresentato dagli inevitabili effetti dirompenti che – a seguito della recente riforma – interesseranno i futuri procedimenti e, ancor più, quelli ancora pendenti in sede penale per le condotte abusive o elusive del diritto.

In particolare – sulla scia della pronuncia di legittimità n. 43809 del 24 ottobre 2014 recentemente intervenuta per i suddetti stilisti italiani – all’indomani dell’entrata in vigore del decreto 128/2015, numerosi procedimenti pendenti per condotte di abuso del diritto o di elusione fiscale verranno, in concreto, definiti con una sentenza di assoluzione piena per insussistenza del fatto.

Nello specifico, il nuovo d.lgs. 128/2015 – unitamente alla Corte di cassazione tramite la recente pronuncia di legittimità n. 40272 del 2015 – ha sancito l’applicabilità dell’art. 10-bis dello Statuto dei contribuenti a decorrere dalla data del 1° ottobre 2015 – precisando che sarà, tuttavia, applicabile – con effetto retroattivo a tutti i procedimenti penali (per condotte antielusive e/o antiabusive) già pendenti al 1.10.2015 – la depenalizzazione delle stesse condotte ai sensi dell’art. 10-bis, comma 13, dello Statuto del contribuente.

Invero, le disposizioni relative all’irrilevanza penale delle condotte antielusive e/o antiabusive si applicheranno anche a quei fatti di penale rilievo perfezionati antecedentemente alla data del 1.10.2015 – ed, in particolare, anche se entro la medesima siano già intervenuti atti impositivi di rilievo fiscale -.

Se così non fosse, all’indomani dell’intervenuta riforma antiabusiva, vi sarebbero infatti alcuni contribuenti condannati ed altri assolti, anche per i medesimi fatti di reato – in netto contrasto con la disciplina del favor rei secondo cui il giudice in caso di successione di leggi penali nel tempo è tenuto ad applicare la disciplina più favorevole all’imputato ex art. 2 C.p. -.

(di Serena Giglio e Alessandro Blatti)

Capita spesso che i contribuenti per errore indichino in dichiarazione un ammontare di imposte inferiore a quello effettivamente dovuto, salvo poi “correggere il tiro” presentando la dichiarazione integrativa e versando la differenza dovuta.

Ebbene, di fronte a tale fattispecie, di regolae, l’Agenzia delle Entrate applica una doppia sanzione, e cioè sia quella per dichiarazione infedele (sanziona amministrativa che va dal cento al duecento per cento della maggior imposta o della differenza del credito ai sensi del comma 2 dell’art. 1 del D.lgs. n. 471/1997), che quella per ritardato versamento (sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato o versato in ritardo, ai sensi del comma 1, art. 13 del D.lgs. n. 471/1997). Tale prassi finisce per equiparare, paradossalmente, i contribuenti “virtuosi” – che pongono rimedio all’errore commesso (e che risultano puniti, come detto, con duplice sanzione e cioè quella per infedele dichiarazione e per ritardato versamento) – a quelli “inerti” (colpiti dal medesimo trattamento sanzionatorio ossia dalla sanzione per infedele dichiarazione e da quella per omesso versamento).

Il presente contributo si propone di affrontare tale tematica ed offrire possibili rimedi interpretativi che risultano, peraltro, già insiti nel nostro sistema fiscale.

In primis, si deve ricordare che, in tema di dichiarazione infedele, il comma 2 del sopracitato articolo 1 del D.lgs. n. 471/1997 dispone che: “Se nella dichiarazione è indicato, ai fini delle singole imposte, un reddito imponibile inferiore a quello accertato, o, comunque, un’imposta inferiore a quella dovuta o un credito superiore a quello spettante, si applica la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento della maggior imposta o della differenza del credito. La stessa sanzione si applica se nella dichiarazione sono esposte indebite detrazioni d’imposta ovvero indebite deduzioni dall’imponibile, anche se esse sono state attribuite in sede di ritenuta alla fonte”.

Inoltre, con riferimento ai casi di omesso versamento il comma 1 del suddetto art. 13 del D.lgs. n. 471/1997 prevede che: “Chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l’ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile. Per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni, la sanzione di cui al primo periodo, oltre a quanto previsto dal comma 1 dell’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, è ulteriormente ridotta ad un importo pari ad un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo. Identica sanzione si applica nei casi di liquidazione della maggior imposta ai sensi degli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e ai sensi dell’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”.

Pertanto, le due sopra richiamate norme disciplinano in maniera specifica un determinato comportamento di tipo omissivo posto in essere da parte del contribuente.

In particolare, la prima norma (i.e. ilcomma 2 dell’art. 1 del D.lgs. n. 471/1997) è volta a sanzionare quel soggetto che indichi in dichiarazione un minor reddito imponibile, una minore imposta o un maggior credito rispetto a quanto effettivamente spettante.

La seconda norma (i.e. il comma 1 dell’art. 13 del D.lgs. n. 471/1997) è, invece, volta a sanzionare colui che non esegue, in tutto o in parte, entro le prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione.

Di conseguenza, apparo chiaro che le suddette norme sono chiaramente chiamate a disciplinare due diverse situazioni.

Tuttavia, occorre rilevare che l’implicazione logica tra la violazione di infedele dichiarazione e quella di omesso (o ritardato) versamento deve essere interpretata nel senso che la prima, e cioè l’infedele dichiarazione – connotata da un disvalore maggiore rispetto alla violazione di omesso ovvero ritardato versamento – si pone in un rapporto di totale “assorbenza” rispetto alla seconda.

E, difatti, vale ricordare che la violazione dell’“infedele dichiarazione”, di cui all’art. 1 del D.lgs. n. 471/1997, in materia di sanzioni, ricorre, tra le altre cose, quando – come nel caso di specie – viene dichiarata un’imposta inferiore a quella dovuta (cfr.: comma 2, art. 1, D.lgs. n. 471/97) e risulta sanzionata per un importo elevato, compreso, in specie, tra il 100 ed il 200 per cento della maggiore imposta dovuta e non versata.

Orbene, come graniticamente riconosciuto, tanto dalla Dottrina quando dalla Giurisprudenza, “analogamente a[lla] dichiarazione omessa, si ritiene che la sanzione prevista per la dichiarazione infedele assorba quella stabilita per l’omesso versamento della maggiore imposta non dichiarata. Pertanto, nel caso di maggiore imposta pari a 100, troverà applicazione solo la sanzione dal 100 al 200 per cento e non anche quella del 30 per cento applicabile all’omesso versamento” (Cfr.: Roberto Fanelli, “Sanzioni fiscali, previdenziali e societarie”, XI Ed., IPSOA, 2011, pag. 204).

In altre parole, “nel nostro sistema punitivo la sanzione per omessa dichiarazione [al pari di quella per infedele dichiarazione] assorbe anche l’omesso versamento, che non può essere contestato in tali casi in via autonoma o tantomeno aggiuntiva” (cfr.: Prof. Cordeiro Guerra, “Il Global Service non sconta l’accisa sull’energia elettrica”, in GT – Riv. Giur. Trib., 2010, pag. 623).

E’, peraltro, evidente che, per intuitive ragioni di ordine logico-sistematico, analogo ragionamento a quello condotto per l’omesso versamento può essere agevolmente fatto per la violazione del ritardato versamento, essendo tale fattispecie contemplata nella stessa disposizione – l’art. 13 del D.lgs. n. 471/97 – dell’omesso versamento e sanzionata in identica misura (i.e. 30% di quanto non versato ovvero versato in ritardo) rispetto a quest’ultima violazione.

A favore di un’“assorbenza” tra l’infedele dichiarazione e l’omesso/ritardato versamento, peraltro, si sono pronunciate – con giurisprudenza assolutamente costante – anche le Corti di merito, che hanno affermato come “l’omesso versamento va riferito all’ipotesi di imposte dichiarate da versare ma non versate, e non anche all’ipotesi di imposte non dichiarate e quindi formalmente non da versare. Per queste ultime c’è infatti già la sanzione per l’omessa o infedele dichiarazione, ben più pesante – in quanto tiene conto anche della implicita intenzione di non versare il quantum non dichiarato – di quella per il semplice omesso versamento di imposte già dichiarate” (cfr: Commissione tributaria regionale del Piemonte, sez. 38, 30 ottobre 2003, n. 21).

Ad analoghe conclusioni giunge la Commissione tributaria Provinciale di Milano, sez. 3, con sentenza del 9 marzo 2010, n. 94, sostenendo che “la sanzione per omesso versamento può essere irrogata solo in relazione ad un’imposta dichiarata e non versata”.

Di identico avviso, anche la Commissione tributaria provinciale di Ravenna, sez. 1, 28 marzo 2011, n. 57, ove afferma che “sul piano logico l’infedeltà della dichiarazione comporta sempre l’omissione totale o parziale dei versamenti. L’omesso versamento risulta già represso con la più grave sanzione, prevista per omessa o infedele dichiarazione … Viceversa la sanzione per omesso versamento … può essere irrogata solo in relazione ad un’imposta che sia stata dichiarata, e non versata.

In tal senso, si segnalano anche le sentenze della Comm. trib. prov. Vicenza, sez. 4, 28 ottobre 2011, n.92, Comm. trib. prov. Ravenna, sez. 1, 10 febbraio 2009, n. 28, CTR di Milano, sez. 32, 22 novembre 2013, n. 141/32/13, ove si afferma che “la sanzione per infedele dichiarazione deve ritenersi assorbente relativamente a quella per tardivo versamento, in considerazione che l’infedele dichiarazione non può essere conseguenza dell’omesso versamento delle ritenute”.

Del resto, tale posizione è stata sposata anche dalla stessa Agenzia delle Entrate con orientamento più che consolidato, se si considera che nelle Istruzioni di compilazione del Modello Unico SC degli ultimi dieci anni, nell’Appendice rubricata “Sanzioni amministrative” si evidenzia come la sanzione del 30% per omesso/ritardato versamento si applica solo nell’ipotesi di dichiarazione presentata con ritardo non superiore a 90 giorni, mentre non si applica nelle ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione ovvero infedele dichiarazione, rimanendo evidentemente assorbita dalle più aspre sanzioni previste nel caso in cui si verifichino tali violazioni afferenti la dichiarazione.”

In aggiunta a quanto sopra, vale rilevare che la questione può essere riguardata anche dal punto di vista del cumulo giuridico e del concorso formale.

In specie, con riferimento al concorso formale, vale rilevare che il comma 1 dell’art. 12 del D.lgs. n. 472/97 dispone che: “E’ punito con la sanzione che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata da un quarto al doppio, chi, con una sola azione od omissione, viola diverse disposizioni anche relative a tributi diversi ovvero commette, anche con più azioni od omissioni, diverse violazioni formali della medesima disposizione”.

In particolare, si ricorda che il concorso formale è stato introdotto nel nostro Ordinamento fiscale – in ossequio ad un principio generale di favor rei accolto anche dall’art. 81 c.p. – per soppiantare il più aspro e repressivo trattamento previsto dal c.d. “cumulo materiale” delle sanzioni (consistente semplicemente nella sommatoria delle varie sanzioni previste per le diverse violazioni).

Tale fattispecie del concorso formale ricorre, ex comma 1 del menzionato art. 12 del D.lgs. n. 472/97, tutte le volte in cui con una sola azione od omissione si commettono violazioni tali da non incidere sulla corretta determinazione dell’imponibile ovvero liquidazione del tributo.

Ebbene, con riferimento al caso in disamina, si deve evidenziare che anche la CTR di Milano, con la sentenza della Sez. 32, n. 141/32/13, depositata il 22 novembre 2013, ha indagato sulla natura del rapporto intercorrente tra le due soprarichiamate violazioni, rilevando la sussistenza di un’ipotesi di cumulo giuridico.

In specie, è stato ribadito che nella fattispecie prospettata “non si tratta di più azioni (…) ma di un’unica azione, vale a dire mancato pagamento di quanto dovuto a saldo per il versamento delle ritenute operate. L’unica omissione è questa e da ciò deriva l’infedele dichiarazione e, quindi, il tardivo pagamento. Nel caso in esame si versa nell’ipotesi del cumulo giuridico, così come mutuato dal principio espresso dall’art. 81 c.p. con la conseguente applicazione della pena prevista per la violazione più grave. Infatti, con l’entrata in vigore dell’art. 12 D.lgs. n. 472/1997, la sanzione va applicata una sola volta in misura ridotta in luogo di quella derivante dalla materiale sommatoria delle sanzioni relative ai singoli illeciti (c.d. cumulo materiale). Si ribadisce che nel caso in esame si tratta di una sola omissione con cui sono state commesse più violazioni di legge e quindi la sanzione applicabile sarà unica.

In conclusione – preso atto dell’esistenza, all’interno dell’Ordinamento fiscale, di norme sanzionatorie adeguate (i.e. sanzione per dichiarazione infedele, ex comma 2 dell’art. 1 del D.lgs. n. 471/1997 e sanzione per ritardato versamento, ex comma 1, art. 13 del D.lgs. n. 471/1997) a colpire le diverse violazioni che possono essere poste in essere dal contribuente a seconda dell’entità del disvalore della condotta tenuta da quest’ultimo – occorre, poi, necessariamente, porle in un rapporto “gerarchico” così da riconoscere una volta per tutte che “il più comprende il meno”, sia che a tale risultato si arrivi mediante l’assorbenza che mediante l’istituto del cumulo giuridico. Solo un approccio di questo tipo, infatti, al quale si potrebbe arrivare, in via definitiva, con un’apposita novella legislativa, consentirebbe di garantire il rispetto del principio, di matrice europea, di proporzionalità delle sanzioni rispetto alle violazioni commesse ed al comportamento tenuto dal contribuente ed evitare che la resipiscenza, invece che premiata, risulti sanzionata non una, bensì due volte!

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